Intensa suggestione negli "Inverni lontani" di Mario Rigoni Stern

La poesia della neve

Dalla narrazione emerge la grande lezione di Pasternak

di Alberto Rodighiero

Per quel delizioso dandy che di nome faceva Guido Gozzano, una nevicata era così: "Neve! Neve densa, placida, lenta, la retorica neve "a larghe falde" della terza elementare, che scende pigra in un’aria dolce, quasi tiepida, s’adagia sul selciato, lo riveste d’uno strato asciutto, soffice come un tappeto persiano; la neve, il fenomeno che adoro fra tutti, quello che nelle terre del sole mi fa rimpiangere i nostri inverni rigidi con una nostalgia senza nome". Per Mario Rigoni Stern è invece così: "Verrà, verrà il caro scricchiolio sulla catasta di legna ad annunciarmi la prima neve come quando ero ragazzo con il suo tictictic ripetuto più volte, e il suo campanellino nascosto nella gola si sentirà anche lassù dove le nuvole compatte e bianche aspettano il segnale". "Inverni lontani" di Mario Rigoni Stern (Einaudi Editore Lire 10.000), nonostante sia un libro molto esile, una quarantina di pagine in corpo grande, ha il grande merito di riportare la stagione invernale montana a una dimensione ancestrale, non concedendo alcunché al languido patetismo d’accatto che tanta fortuna ha nelle nostre librerie. A sostegno della narrazione, una prosa secca e precisa, che privilegia il non detto e l’ellisse ma che non per questo è avida di "calore" nel descrivere il mondo emotivo dello scrittore. Per Rigoni Stern inverno è "accendere il fuoco con metodo: due pezzi laterali, sopra ramoscelli ben secchi, altri pezzi di faggio", inverno sono: le punte degli sci curvate nell’acqua bollente da Giacomo Bett, falegname che parlava con le allodole addomesticate, inverno sono: "legna secca, farina, patate, verdure in composta, marmellate funghi secchi, oca a pezzi, carne secca affumicata anche di selvaggina, lardo sotto sale nella pietra scavata a truogolo. Lo scrittore asiaghese non rinuncia naturalmente a rievocare gli anni nei quali le primavere non c’erano e l’inverno era "Generale". E allora ecco la Russia e l’Albania, la Stiria e la Grecia, la notizia dell’amico Rocco caduto sulla Voiussa e "il ricordo indigesto di un barile di cornacchie pelate e salate, mangiate nei Balcani dai nostri prigionieri nell’inverno del ’44. La stagione fredda, una volta perse le stellette diventò, invece il neorealistico patto commerciale tra il Polesine e l’Altopiano di Asiago: la legna dei boschi in cambio del mais della pianura, gli uffici dove per il gelo si ghiacciava l’inchiostro nei calamai e una biblioteca di fortuna dove venivano distribuiti a prezzo politico Papini e Garcia Lorca, Eliot e Vittorini, puntualmente restituiti odorosi di stalla. Una volta un amico chiese a Rigoni Stern quali fossero i suoi alberi preferiti: il larice e la betulla. Anche in queste poche pagine sono fortemente presenti se per larice vogliamo leggere l’amore per la botanica, l’abete, i faggi, il Tasso, le bacche dei sorbi , il viburno, i frutti del crespino e tutte le amate piante della sua terra e per betulle, la steppa russa, le isbe, Pasternak, Salamov e i versi struggenti della Achmatova. "Inverni lontani" è in definitiva il libro di "un piccolo uomo tra miliardi di altri", che nel tepore della sua casa, "prepara il suo inverno che sarà simile a molti altri abitanti della terra, di un uomo che non può non pensare al gelo del Kossovo e della Serbia, di un uomo che non sa dimenticare la "sua" Albania e la "sua" Steppa, di un uomo che assieme ad Aristofane non smette di ripetere: "A me piace, seduto nel canto del fuoco,/ bere con i compagni, bruciando la legna più secca". In attesa della primavera quando "sulle stanghe dei salumi che sono stati giudiziosamente dosati con patate e polenta restano soltanto la coppa, una soppressa o una pancetta per le occasioni speciali".