NEVE
Aldo Anchisi
"Io cosa sono, cosa, e cosa sono loro." Czeslaw Milosz - da "Uccelli"
Carissima piccola Sonija, voglio parlarti della neve. Quando ero bambina (e tu non eri ancora che un alito lieve tra le stelle), all'avvicinarsi della stagione invernale ogni anno mi coglieva una strana eccitazione. Procedendo al contrario rispetto ai ritmi della natura, invece di intorpidirmi coi primi freddi e risvegliarmi in primavera, facevo esattamente l'opposto.
E aspettavo la neve. Puntualmente ogni inverno, trascorrevo i brevi pomeriggi di novembre scrutando il cielo, il viso premuto contro la finestra e il naso gocciolante. Mio fratello Svobodan giocava con i soldatini di carta, mentre io tentavo col pensiero di accelerare il lento incedere delle nuvole. Finché quelle incupivano poi gonfiandosi premevano finalmente sulle prime case del villaggio.
Di ora in ora, di anno in anno, mi trovai ad attendere sempre più trepidante la prima nevicata. Spesso riuscivo ad assistere al preciso istante in cui cominciava; altre volte l'imbrunire e l'intervento di tua nonna mi costringevano a coricarmi. Ma in cuor mio ero sicura che sarei stata ripagata, la mattina dopo, dal più magico e silenzioso dei risvegli.
Anche quest'anno la neve è arrivata, ma un po' in ritardo. Non vedevo l'ora, ma – ironia della sorte – ero addormentata quando ha fioccato la prima. Un sonno profondo, buio e senza neve. "Coma indotto da trauma cranico", mi ha spiegato al risveglio il medico italiano dell'Ospedale.
Gentile, quel medico. Io non capivo tutto quello che diceva, ma ogni volta che qualcuno tentava di spostare la mia branda nel corridoio per far posto a qualche altro ferito grave, lui cominciava a strepitare finche non lo accontentavano e mi rimettevano nella camera.
Anzi, dopo un po' di questo tira e molla è riuscito addirittura a ottenere un letto vero: alto, morbido, dal quale potevo intravedere attraverso il vetro sporco la neve. Poi, qualche giorno fa non l'ho più visto. Ho saputo che ha terminato il suo periodo ed è dovuto ritornare in Italia, dove ha casa, famiglia e un lavoro in un ospedale con tutti i vetri alle finestre. Io non ho più una casa, non ho più un lavoro e - Dio mi perdoni, figlia mia - non ho nemmeno una famiglia.
Puljic se n'è andato via così, in un soffio, all'inizio di questa maledetta guerra. Senza una ragione valida (ma non c'è mai una ragione valida). Caduto senza eroismi in un'imboscata serba, mentre con la sua bicicletta andava a lavorare, tuo padre è finito com'era vissuto, in una banalità che ancora mi sconcerta. La sua bella bici verde l'ho riportata a casa. Tua sorella Ivanka, strappatami così violentemente dalle braccia che quando chiudo gli occhi rivivo ancora la scena della separazione attimo per attimo.
Gli altri, parenti e amici senza più ombra, una lunga fila di volti silenziosi che danzano lenti nella mia memoria, e ogni volto è una nuova lacrima. Non mi resti che tu, adorata Sonija, e prego il Signore che un giorno possa farci riabbracciare. Ieri mi hanno procurato penna e carta, (diventate rarissime, da un po' di tempo). Perdonami però se non metterò l'indirizzo sulla busta.
Mi hanno detto che gli indirizzi non servono più, a Sarajevo, da quando le bombe hanno sventrato interi quartieri. Il Servizio Postale d'altronde non esiste quasi più. Affiderò la lettera a qualche volontario, e se Dio vorrà mi leggerai. Si fa un gran parlare dell'imminente pace, forse il Natale che sta arrivando sarà l'ultimo di guerra. Il Papa non fa altro che parlare di noi, me lo ha riferito una delle suore dell'Ospedale, ma io non ci credo. Cioè, non è che non creda al Papa; non credo piuttosto che bastino le preghiere per cancellare l'inferno di quaggiù.
Quaggiù ci sono i Diavoli, altro che preghiere. Le preghiere sono per i santi, sono per le signore che si inginocchiano alla Messa facendo attenzione ad abbassare il cuscinetto perché le calze non si sfilino. Noi qui abbiamo i diavoli serbi, che se ne fottono delle preghiere e fanno la pulizia etnica e ammazzano i bambini. Hanno danzato anche per me, i diavoli. Sono arrivati una sera, appena dopo cena, quando ormai non c'era più il povero Puljic a potermi difendere (ma cosa avrebbe potuto fare?).
Hanno dapprima bussato con arroganza alla porta, con loro c'erano gli sbirri della Polizia Speciale. Dovevano fare una breve perquisizione e poi sarei dovuta andare con loro. Croata in Bosnia, cristiana cattolica tra i non cattolici, non ero voluta scappare alla morte di Puljic. Ed ora mi trovavo là, immobile davanti alla loro arroganza, inerme come un agnello all'angolo della staccionata. Riconobbi tra loro un nostro vicino di casa, ti ricordi di Ivan Markovic? Il padre era segretario comunale, serbo cattolico. Tra l'altro, chi di noi ha mai badato alle etnie, vivendo nella provincia di Sarajevo? Ivan Markovic: mi ci aggrappai come all'unico viso conosciuto in una folla. Era poco più che un ragazzetto, avrà avuto sì e no venticinque anni. Dio mio, quante doveva averne visto dal '92 ad oggi, fatto sta che mi sembrò subito indurito, freddo.
Lo infastidirono le mie suppliche e il ricordargli la madre (perché minava la sua durezza agli occhi dei compari), o forse sarebbe stato lo stesso perché la sua cattiveria di serbo e di giovane maschio doveva comunque rivelarsi, ma ricevetti improvvisamente uno schiaffo. A quel segnale cominciò la danza; mi trovai in un vortice di insulti, domande che non aspettavano risposte e schiaffi, poi pugni e calci. Crollai a terra, sanguinante e umiliata. Cagna croata, troia, sporchi miserabili vermi eccetera eccetera. Sembrava volessero sfogare su di me tutta la rabbia di quella guerra, e mi riversarono addosso una valanga insopportabile di improperi e bestemmie.
Poi qualcuno mi tirò su, sentii mani addosso che mi frugavano da ogni parte, tiravano su la gonna e mi strappavano gli abiti di dosso. Uno mi abbracciò forsennatamente, poi mi lasciarono cadere a terra e la tensione si spezzò per un attimo. Il cerchio si aprì e mi si piantò davanti lui, Ivan, il ragazzetto pulito figlio del segretario comunale. A gambe larghe in una posa da dittatore mi squadrò dalla testa ai piedi. Era inutile tentare di coprirmi, gli abiti erano a brandelli, ma feci comunque istintivamente il gesto. Allora lui mi parlò, e le sue parole furono dapprima gentili ma gelide, i suoi occhi piccoli e iniettati di sangue, socchiusi. Sorrideva. Io scoppiai a piangere, e lo implorai di farli smettere, di andare via; lo supplicai di lasciarmi perdere, non ero né pericolosa né attraente, non meritavo la loro attenzione.
Dissi cose che mi vergogno siano uscite da me, piccola Sonjia; ma avevo paura di morire e quando si ha paura si dice qualunque cosa. Io sono stata una moglie, una madre, ma mai un'eroina. Imploravo Ivan Markovic come si farebbe con un figlio, ma questo solleticò ancor più la sua crudeltà e la sua voglia di potere. Continuavo a singhiozzare mentre lui mi si coricò goffamente addosso e mi strisciò addosso il suo coso duro, Dio mio che vergogna! Lo imploravo ancora mentre lui entrava dentro me, dove solo tuo padre era stato, e scompostamente mi violentò, ridendo e commentando a voce alta con gli altri diavoli. Io mi agitavo e urlavo arrabbiata, adesso, e tentavo con forza di liberarmene. Forse fui io, o forse la sua troppa eccitazione, se ne venne subito e imprecando cominciò a sbattermi la testa una, due, tre volte contro il pavimento freddo. Cagna croata, troia eccetera. Poi si rialzò, e sempre urlando mi passò agli altri. Ringrazio Dio di avermi concesso di perdere i sensi dopo i primi due.
La testa mi ronzava, sentivo che si era aperta dietro e usciva del sangue caldo, e mentre loro si accalcavano e ridevano urlavano e facevano la fila per entrarmi dentro dappertutto, io desiderai di morire. E finalmente morii, e potei sognare. Ora sono qui, in un brutto ospedale senza tutti i vetri alle finestre. Dalla mia camera si scorgono le colline intorno alla città. Un'altra volta, se riusciremo a incontrarci, ti racconterò come sono arrivata a Sarajevo. Ci abbracceremo e piangeremo di gioia, parleremo dei nostri morti davanti a un bicchiere di Pelinkovac e saremo un po' felici. Anche se niente sarà più come prima. Anche i nuovi medici sono premurosi, e qui si respira il clima di speranza di cui ti dicevo prima. La pace, chi ci crede più? E poi che faremo, dopo. Che ce ne faremo, noi, della pace? Ti lascio, sono molto stanca; insistono che devo riposare per essere in grado di andarmene a Natale. ma io sto bene, qui. Ho un letto, la penna, la carta, cibo e gente intorno che non vuole violentarti o cacciarti via.
La notte ricevo visite: Pulijc, Ivanka, la nonna, passano tutti a trovarmi e stanno lì, ai piedi del letto, in silenzio. Puljic con la sua bicicletta verde e i baffi curati. E poi i bambini, tanti bambini tutti uguali, tutti bellissimi, vestiti con i camicini bianchi da ospedale. Tutti i bambini del ' 92, seri e compìti come degli adulti. Si mettono a sedere tutti ai piedi del mio letto, e io sorrido loro, e aspettiamo insieme la neve.
"...e in quel candore bianco, i bimbi che frugavano tra i rifiuti in cerca di qualcosa da vendere, sembrava giocassero a palle di neve."