Dalla “LA STAMPA”

 

«Eravamo come sassi trascinati a valle dall´oceano bianco»
dalla vetta quando tutto ha ceduto e i miei compagni sono morti

13/1/2003

inviato a AOSTA

 LA cosa più bella nella mattina di sole era la vetta che disegnava il cielo, vista da sotto, ma così vicino, come se fosse una matita di neve che tracciava i contorni del Paradiso. Ancora adesso che lo avevano appena caricato sull'elicottero, Marco Zanetti continuava a dire sempre la stessa cosa, a ripeterla come una ossessione che ti ha cambiato la vita, con gli occhi sbarrati, lo sguardo fuori dal mondo, il naso rosso di sangue e di gelo: «Eravamo quasi in cima, eravamo quasi in cima...». Erano a 50 metri dalla vetta. Mont Fallere, 3090 metri, versante Sud. Erano in 11: quattro sono morti, sei feriti. Ora ci sono tutti i blocchi nel grande ventre bianco della montagna, c'è rimasto il taglio della valanga che dalla cresta va verso sinistra, sotto la vetta, e poi giù nella valle ci sono dei grumi, come grossi palloni, e sono tantissimi, che continuano a rotolare e in fondo c'è il laghetto, dove s'è fermata questa corsa che non conosce la vita degli uomini. O sono gli uomini che ingorano questa corsa? Marco Zanetti ha una mano gonfia, e anche tutta tagliuzzata, come l'altra, le mani piagate dal freddo e dalla neve che ha scavato per qualche tempo, che è senza misura, senza numeri, che è senza vita, che non è scandita dai secondi o dai minuti. Ha scavato per salvare se stesso e per tirare fuori i suoi amici sepolti sotto la valanga. Sono morti in quattro e due avevano la testa schiacciata. Erano 11. Erano quasi in cima. Là sopra, nella vetta che toccava il Paradiso, c'era Alberto Cheraz, da solo. La montagna fa questo effetto, quando i giorni sono come questi. La neve è vergine, un manto infinito, così intonso e perfetto, perché qui ci arrivano solo i più bravi, o i più pazzi. Alberto Cheraz è una guida alpina, di Valpelline. Da là sopra, mentre si riposava nel Paradiso, ha visto quel gruppo che saliva, sulla cresta Sud. Lì, d'estate, c'è un sentiero che va fino in cima. E' ritenuto il più sicuro. Quegli 11 venivano su seguendo quella strada, coperta dalla neve, «una classica dello scialpinismo», come sottolinea Davide Bertola, della Protezione Civile. Erano a 50 metri dalla vetta. Marco avrà alzato lo sguardo. Anche gli altri avranno adocchiato il Paradiso. E' in alto che andavano. La morte, invece, era sotto. Sotto ai loro piedi. Dice Delfino Viglione, del Soccorso Alpino: «Avevano scelto di salire su un versante che a loro sembrava abbastanza sicuro. Solo che il peso della gente deve aver mosso questa placca». E Lorenzo Chentre, direttore della Protezione Civile di Aosta, aggiunge che «non erano dei dilettanti. Avevano scelto la via giusta». Il vento soffiava da Nord-Est. Non era troppo forte. In quel momento, «saranno state le 13 e qualche minuto», Alberto Cheraz ha visto la valanga sotto di sé. E' partita questa placca di neve e di ghiaccio, e gli 11 che stavano salendo verso la cima, a 50 metri dalla fine, invece l'hanno sentita sotto i piedi, senza fare in tempo a capire niente, senza sapere quel che succedeva, dentro a quel boato che scoppiava e che rimbombava a valle, dentro alla valanga che partiva assieme a loro, e loro stessi valanga, dentro alla tragedia, dentro alla morte. La slavina li ha presi tutti come se fossero terra e neve anche loro. Cheraz ha sentito la terra tremare e il cuore salire. E' passato solo qualche secondo, neanche un minuto. Il boato scendeva. Lui ha preso il telefono, ha chiamato il Soccorso Alpino. Non c'è voluto molto a vivere e a morire. Sotto al Paradiso, è successo tutto in fretta, e anche il primo elicottero della Protezione Civile è arrivato dopo appena qualche minuto, alle 13 e 30, quando Cheraz era ancora sconvolto davanti al mondo visto da sopra il taglio della valanga, da sopra quella crepa. Alla fine, quando avevano già liberato la valle e i tre elicotteri erano tornati alla base, e i 20 cani antivalanghe avevano finito le ricerche annusando in mezzo alla neve, quando era già sceso il buio e il Paradiso s'era spento, Lorenzo Chentre aveva riassunto ai cronisti che «la massa nevosa li ha scaraventati giù dalle rocce e poi nella valle sottostante. Alcuni sono morti soffocati dalla neve, anche se la neve si è poi dispersa. Altri sono morti per le botte riportate contro le pietre». Tra i quattro i morti ci sono due donne e due uomini: Ivonne, Sara, Davide, Alessandro. Tre valdostani e un ligure, Alessandro, da Chiavari. Renée Alliod è il medico che assieme a Carlo Vettorato ha cercato di salvarli. Racconta che all'inizio «abbiamo tirato fuori i primi, che avevano gli arti rotti, ma che erano vivi. Poi, purtroppo, siamo scesi. Vicino alla parte finale della valanga, c'erano i corpi senza vita». Due erano quasi senza vita. Alliod e Vettorato hanno cercato di intubarli. Poi hanno capito in fretta che non c'era più niente da fare. Due avevano il cranio rotto, la schiena spezzata dalle rocce. Gli altri due erano morti annegati: avevano mezzo metro di neve sopra. Quando la valanga è partita, da un fragore importuno che è diventato un boato assordante, li ha raccolti tutti insieme come se fossero fuscelli, pietre, rami di alberi spezzati, e li ha presi e travolti, portandoli giù a valle con la sua corsa folle e esplodente. Alcuni di loro si sono trovati ai margini della slavina, trattenuti sopra la montagna che scendeva, altri sono entrati e usciti come un una danza insensata. La valanga si comporta come il mare quando è in burrasca, con le onde che ti prendono e ti portano su e giù, dentro e fuori, a seconda del movimento implosivo che ne accompagna e sollecita la corsa. In questo maremoto di neve, «c'è chi rimane a galla e viene sbalzato, e chi viene inghiottito», come spiegava uno della Protezione Civile. Due sono finiti spappolati. Due sono annegati, proprio come nel mare, proprio come dentro a una burrasca. E' andata così. Il giorno è finito, è tutto nero. Il Paradiso è scomparso dietro al tramonto. Cheraz, l'hanno portato a casa. Marco è in ospedale assieme agli altri cinque feriti. Forse ha la mano rotta. Gli hanno fatto i raggi. Oggi non si ricorda bene quello che è successo. La vetta è svanita da sotto i piedi quando era appena sopra loro. E' sicuro che è andata così.

 

IL PRESIDENTE DELLE GUIDE ALPINE DELLA VAL D´AOSTA
«Se si rimane sulle piste non si corre alcun pericolo»
«E quando si fa un´escursione fuori è molto pericoloso muoversi in gruppo»

13/1/2003

COURMAYEUR

LA montagna è sola e va affrontata da soli». E´ un concetto trascinato da tempi antichi, dalle vecchie guide, che ora soltanto di rado si ascolta anche negli ambienti di chi i monti li sale per professione. Massimo Datrino, di Courmayeur, presidente delle guide alpine della Valle d´Aosta, risponde: «Non so se possa essere la `´regola´´, certo è che, soprattutto d´inverno, la montagna non si affronta in gruppo. Niente comitive, insomma, il peso degli uomini può far crollare ciò che è in equilibrio instabile».


Il fuoripista a gennaio, non è comunque troppo rischioso?

«Precisiamo, qui non si tratta di fuoripista, ma di scialpinismo, lontano dei comprensori dello sci, dagli impianti. Sulle piste il pericolo non c´è, esiste un controllo costante a monte. Lo sci è sicuro dove ci sono le stazioni. In questi comprensori si fa anche del fuoripista, itinerari che corrono lungo le piste battute o anche più in alto. Lo scialpinismo è altra cosa».

Disciplina per professionisti?

«Certo, assolutamente. Guide alpine o alpinisti provetti».

Perché?

«Per affrontare la montagna d´inverno ci vogliono grandi conoscenze tecniche e di territorio. Molto di più che per l´estate. Le condizioni cambiano in breve tempo, basta un´oscillazione di 2 gradi per rendere insicuro ciò che si poteva affrontare senza problemi, oppure un improvviso vento che muta la coesione della neve. Le componenti del rischio sono molteplici. Ecco perché dico che soltanto chi ha grande bagaglio di esperienza e conoscenza può affrontare i monti innevati. Anche il professionista, poi, deve essere `´armato´´ di umiltà, quasi illimitata».

Umiltà?

«Sì, umiltà, dote che deve avere ogni alpinista, anche quello della domenica. Occorre avere timore della montagna, sempre. Di solito invece gli appassionati di scialpinismo sono personaggi...diciamo particolari. Non sanno rinunciare, arrivano in gruppo e devono a tutti i costi raggiungere la vetta e poi scendere. Il tornare indietro è vissuto come una sconfitta, invece è saggezza, spesso vale la vita».

In questi anni si è fatta molta prevenzione. Si è detto che per fare scialpinismo ci vuole l´Arva, l´apparecchio che invia il «bip-bip» anche a 80 metri di distanza e fa localizzare le persone sotto una valanga. Poi ci vuole anche una pala leggera e pieghevole da infilare nello zaino. Informazioni quasi paradossali, come se questi accorgimenti evitassero le valanghe.

«Messaggi corretti che devono essere uniti anche a una corretta informazione sui luoghi, sulle condizioni meteo e della neve. E´ vero però che la tecnologia di cui disponiamo sovente induce a sottovalutare i rischi della montagna. L´Arva, oppure una grande tecnica personale, non fermano le valanghe».

Chi lascia la città per una gita scialpinistica che cosa deve fare, allora?

«Deve mettere da parte certi pregiudizi, come quello che alle guide del posto è meglio non chiedere nulla, altrimenti si propongono per la gita, oppure non svelano alcun `´segreto´´. Sciocchezze, io rispondo ogni giorno a decine di telefonate, dò informazioni, avverto che in certe zone è in quel momento pericoloso andare».

Resta il fatto che lo scialpinismo a gennaio è fuori stagione.

«Diciamo che è commercialmente appetibile. Un tempo lo scialpinismo era disciplina della primavera. Dietro a questa moda c´è anche una serie di informazioni sbagliate. Riviste specializzate spingono la montagna in ogni periodo, senza mettere in guardia dai rischi. Si ha quasi l´impressione che basta una preparazione fisica e tecnica, in realtà ci vuole una grande esperienza del territorio, una sensibilità che nessun manuale può darti. Tutti vogliono fare tutto, senza limiti. Sabato ero a Cogne per fare cascate di ghiaccio. C´erano già 50 persone divisi a metà, uno dietro l´altro, su due cascate. Il freddo è arrivato da poco, ci sono ancora pozze appena gelate. Il pericolo è grande, soprattutto se in molti arrampicano nello stesso posto. E ieri c´erano 20 olandesi sul Monte Bianco, prendevano la funivia per scendere sul ghiacciaio del Toula. Non hanno chiesto nulla a nessuno».

Ma non si può far nulla?

«Ci ho provato un sacco di volte, mi sono preso dei `´si faccia gli affari suoi´´, per non dire altro. E´ questione di cultura. Adesso quella dominante è di fare `´trenini´´ sulle montagne così si paga meno se ci affida alla guida e soprattutto perché non c´è tempo di aspettare. Si fa tutto troppo in fretta».

Nelle zone delle valanghe cadute in 15 giorni in Valle d´Aosta c´erano sempre delle guide alpine.

«E´ vero, ne parleremo al nostro interno, questo è certo. Occorre mettere un freno a questa moda. Prima di partire bisogna fare verifiche. Queste sciagure sono sempre accadute, anche perché esiste sempre l´imponderabile in montagna, non si è mai sicuri al cento per cento. Ciò che è cambiato è che c´è molta più gente in montagna, in ogni stagione, anche d´inverno, quindi i rischi aumentano».

 

DESTINI UNITI DA UNA TRAGEDIA
L´ingegnere, la segretaria, l´impiegata e l´albergatore: quattro vite spezzate
«Non parlate di imprudenza, perché erano tutte persone esperte»

13/1/2003

inviato a AOSTA

DOVEVA finire così, la giornata. Con le mani aggrappate alle sbarre del cancello del cimitero immerso nel gelo e nel buio: «E´ lì?». Sì, Alessandro Muzzioli è già nell´obitorio. Ha il volto composto, questo giovane ingegnere che si era laureato nel 2000. Aveva trovato subito lavoro in un´azienda di Gattico, provincia di Novara. Ai suoi piedi c´è una borsa con la giacca a vento, appena strappata. Un lungo taglio, una specie di sette, un´unghiata malefica. Niente di più. Poi gli scarponi, la fascia, il berretto. Faceva il pendolare Alessandro, la casa a Genova, vicina a quella dei genitori, che ieri sera sono partiti per Aosta. Tutte le mattine partiva presto in auto per il Piemonte e poi tornava in Liguria. La montagna, una mania. Vicini l´uno all´altro. C´è il corpo di Yvonne Pasqualotto, 55, segretaria in pensione, un figlio che vive a Milano e che, nella tarda sera, stava ancora cercando di raggiungere il cimitero. Al telefono di Aosta, risponde la sua voce, bassa e gentile: «Lasciare un messaggio dopo...». Invece niente. Ieri mattina era partita con i suoi amici. «E´ una meta che mi manca - aveva detto - e la voglio fare». Era felice, entusiasta. E Sara Chasseur anche. Lavorava nell´ufficio personale della Monterosasky. Abitava ad Antagnod. E così la ricorda un amico, l´ex sindaco Davide Merlet: «Una ragazza solare, piena di vita. Sara era stata segreteria qui, alla scuola di sci. All´alpinismo si era avvicinata solo da poco. Era una che, quando iniziava una disciplina sportiva, si impegnava al massimo. Se era fidanzata? Non lo so...». Adesso un uomo s´è avvicinato al corpo e le stringe una mano. C´è il riconoscimento da fare e alla fine le parole non servono. E infine Davide Jacquemod. Trent´anni, direttore dell´Associazione valdostana degli albergatori. Figlio unico, figlio di un´insegnante e nipote di un ex preside. Gente nota, ad Aosta. C´è una processione, per lui. Parenti e amici. C´è una ragazza con la testa appoggiata al muro. Piange, strappa un fazzoletto. «E´ la sua fidanzata», dicono gli amici. Schivi e disperati. C´è un uomo. Antonio Trevisan, un funzionario del Comune, li accoglie, seleziona e caccia via gli estranei, i curiosi. Uno dopo l´altro, fuori dall´obitorio, sotto la luna piena, la ghiaia bianca, i lumini e le lucine rosse delle telecamere. «Possiamo entrare...come sono?». «Sono a posto, che vi immaginavate? Chi non se la sente, resti fuori». Un ragazzo si tira indietro. «No, io non me la sente». Dice di essere il fratello della ragazza di Alessandro, resta qualche minuto in attesa. Vorrebbe sapere cosa è accaduto ma alla fine se ne va, da solo, verso un gruppo di ragazzi, ancora vestiti da sci, con gli scarponi che fanno un rumore strano sul vialetto. Davanti al cancello raccontano sommessi: «L´ho vista volare, un attimo, una delle sue racchette l´ho trovata cento metri più in giù. Come un´esplosione: prima uno scricchiolio e poi lo schianto». Ma quel fragore improvviso è perduto per sempre e adesso, la cronaca della giornata si celebra dentro nel silenzio perfetto del cimitero. «Impossibile, impossibile», spiega Marco Zanda. Lui nel gruppo degli sci alpinisti non c´era, ma era amico di Sara e allora è venuto all´obitorio. Non gliela fanno vedere ma una cosa la vuole dire: «Non parlate di imprudenza, perchè erano tutti esperti. Li ho visti in quota, un gruppetto, separati dagli altri. Salivano regolari, con facilità e nessuno ha messo gli sci di traverso per abbandonare la cresta e raggiungere così prima la vetta. Quella sì, sarebbe stata un´imprudenza». Dall´obitorio all´ospedale. Giancarlo Negrini è uno dei sopravvissuti. Abita a Morgex, ricoverato in ortopedia, pochi giorni di prognosi. «Non me la sento di raccontare nulla, non vorrei dire delle sciocchezze. Magari lo farò dopo». Le sequenze più drammatiche, alla fine, le racconta a un amico che è al suo fianco, nella stanza dell´ospedale. Frasi spezzate: «Tutto all´improvviso, era una giornata perfetta». Ma il tempo in questi giorni è stato bizzarro. Caldo, molto caldo, freddo, vento, neve, tanta sopra i 2200 metri. «No, qui non c´è nessuna accusa da fare a nessuno». Negli occhi c´è ancora l´immagine della valanga: «Le balze di roccia a metà della montagna, le lastre di neve ventata e ghiacciata che brillano a fil di cielo, molto freddo. Tutto perfetto...Sino a quando non s´è staccata». E l´atto finale è all´obitorio, a contare i morti e a cercare un perchè che non esiste, almeno per loro, che sono sono rimasti incolumi e ora cercano di spiegarsi l´uno con l´altro cosa è avvenuto. Lo dice, per tutti, il maresciallo della Finanza Delfino Viglione, che la procura ha incarico di svolgere le prime indagini: «Lasciate perdere, col senno di poi...Vedremo, prima dobbiamo sentire i testimoni». Entro pochi giorni il primo rapporto, ma a cosa serve? Nulla, sarà una ricerca inutile, quella di una colpa che non c´è. Sta uscendo dalla camera mortuaria, in mano ha una busta di nylon con i documenti delle due donne morte. Cerca i parenti, che hanno scelto un angolo lontano. Si abbracciano e piangono. Un dolore composto, viene da pensare che non c´è nè odio, nè rancore verso la montagna. Lo spiega meglio la serenità che la morte ha posato su quei volti.

 

ALTRI SEI SONO RIMASTI FERITI
Valanga in Valle d´Aosta, uccisi quattro sci-alpinisti
Sono stati travolti mentre erano impegnati nella scalata del Mont Fallère

13/1/2003

Beatrice Mosca

SARRE (Aosta)

Alle 13,20 di ieri una valanga si è staccata dalle pendici del Mont Fallère, una montagna di 3090 metri, spartiacque fra la valle principale e quella del Gran San Bernardo, nel comprensorio di Sarre, comune una decina di chilometri a monte di Aosta. Nella zona si trovavano diciassette scialpinisti, dodici dei quali sono stati travolti dalla massa di neve. Quattro i morti, sei i feriti mentre altri due sono rimasti illesi. Le chiamate di soccorso sono state tre, le prime due ad opera di una guida alpina della Valpelline, Alberto Chéraz, e di una ragazza che si trovavano sul posto a poca distanza uno dall´altra, la terza da una persona che seguiva l´escursione con il cannocchiale. Sono arrivati 40 soccorritori fra guide, uomini del Soccorso alpino della guardia di finanza, forestali e 7 unità cinofile, portati da tre elicotteri del Soccorso valdostano. Tra le vittime tre valdostani, Ivonne Pasqualotto, 55 anni (segretaria in pensione) di Aosta, Davide Jacquemod, 30 anni (direttore dell´Associazione valdostana albergatori) di Aosta, Sara Chasseur, 33 anni, di Antagnod di Ayas (ex segretaria della scuola di sci e da 10 anni dipendente delle Funivie di Champoluc) e un ligure, Alessandro Muzzioli, ingegnere di Genova. Quattro valdostani e due liguri i feriti: Sergio Milani e Marco Zavattaro di Aosta, entrambi ricoverati in Rianimazione (il primo arrivato in ospedale in grave stato di ipotermia), Barbara Giuliani di Gignod (che ha riportato la frattura del bacino), Giancarlo Negrini di Morgex (ferito in modo lieve, ma ricoverato in Ortopedia), Marco Zanetti di Genova e Giovanna Ameri di Chiavari (quest´ultima trasferita in serata al Cto di Torino per la frattura di due vertebre cervicali). L´incidente ha modalità molto simili a quelle del Mont Fetitta, dove domenica scorsa una valanga aveva travolto alcuni scialpinisti e causato la morte di una donna milanese. Gli escursionisti erano quasi sul crinale, divisi in gruppetti, quando è avvenuto il distacco, nella parte iniziale non molto largo visto che con ogni probabilità è stato causato da una placca ventata. Il primo smottamento ha, però, coinvolto la neve a valle. Va ricordato che la nevicata di sabato aveva depositato uno strato di circa 50 centimetri che non ha legato con il fondo preesistente. La valanga è stata imponente - nella zona di deposito è larga oltre 300 metri - molto veloce e polverosa a causa delle basse temperature. Per chi si trovava sulla sua traiettoria è stato impossibile evitarla. Il pendio interessato è prevalentemente erboso, poche le rocce che in questi casi si rivelano dei buoni ancoraggi e contribuiscono a tener ferma la neve. I travolti sono stati trascinati e poi sbalzati da una roccia alta circa venti metri. Le operazioni coordinate dai responsabili del Soccorso alpino valdostano Renzino Cosson e della zona del Monte Bianco, Oscar Taiola, sono continuate fino a sera quando i sondaggi, le ricerche dei cani, i riscontri delle testimonianze e gli accertamenti sulle auto che gli escursionisti avevano lasciato nel villaggio di Vetan a monte di Saint-Nicolas hanno dato la certezza che tutte le persone che si trovavano in zona o erano rientrate o erano state recuperate. I corpi delle vittime sono state composti nella camera mortuaria del cimitero di Aosta dove, con il supporto di volontari dell´Associazione nazionale psicologi per i popoli-Emergenza Valle d´Aosta, si è svolto il rito del riconoscimento. Gli stessi psicologi, allertati dal Servizio 118, hanno contribuito ieri a gestire l´emergenza al Pronto soccorso di Aosta dando conforto ai feriti e ai loro amici e familiari. «La gestione dell´aspetto psicologico - dicono le psicologhe Elvira Venturella e Mari Madeo - è importante in situazioni di forte rischio di stress emotivo». Tutti i feriti soccorsi ieri sul Mont Fallère sono giunti al Pronto soccorso in stato di choc. «Per chiunque si trovi a vivere esperienze così drammatiche - aggiungono - è difficile prendere coscienza della realtà. In questi casi si verifica un blocco delle emozioni, soltanto dopo alcune ore i feriti hanno cominciato a rendersi conto dell´accaduto. La loro prima preoccupazione è stata per i compagni, qualcuno si disperava per non aver potuto aiutarli. Tutti si sono, infine, resi conto di essere dei sopravvissuti. Non ci sono state reazioni di rabbia, l´amicizia ha prevalso insieme con il dolore per i legami perduti». «In media ci vogliono due anni per superare il dolore di un lutto, anche se non traumatico - concludono le psicologhe -. In questo caso il tempo dipenderà dalla storia personale di ognuno. All´inizio si tende a rimuovere, ma sarebbe bene rielaborare l´esperienza vissuta. Per questo abbiamo consigliato alle persone colpite da questo evento di rivolgersi agli psicologi sul territorio».