Caro» signor Pietro Gottardi,
Le scrivo questa lettera facendo riferimento al Suo articolo «Stuzzica la
valanga, ma ne esce illeso» in data 6 Aprile.
Innanzitutto sono molto perplesso, che Lei tratti la privacy della gente in
questa maniera. Sto parlando del fatto, che Lei pubblichi il nome del
diretto interessato senza chiederne il permesso. Sbaglio o è contro la
legge?
Veniamo all'articolo vero e proprio:
Già nella prima frase Lei sostiene che Elmar è andato a sfidare
la morte; mi dica Lei, non la sfidiamo tutti quando andiamo
in montagna, in macchina o quando attraversiamo la strada?
Andiamo ad analizzare le prossime frasi: l'ignorante (inteso
nel senso letterario del termine, ossia colui che ignora) è
proprio Lei, perché Lei ignora l'individuo Thaler Elmar con tutti
i suoi diritti e sviluppa le sue valutazioni senza averlo nemmeno
interpellato! Ma la Sua serietà professionale (o vogliamo
chiamarlo buon senso?) dov'è rimasta? Sepolta sotto quella valanga?
Andiamo avanti; Lei parla del fatto, che Elmar sia stato multato
per aver ignorato i cartelli di divieto di sci fuoripista. Si vede
proprio, che le Sue ricerche sono molto superficiali, perché
quel cartello, del quale avete pubblicato anche una foto, non
è per niente un cartello di divieto, avverte l'utente che potrebbe
esserci il pericolo di distaccamento di valanghe. La
prossima volta si informi bene prima di scrivere fesserie!
Che il sig. Thaler abbia sbagliato nella valutazione del rischio
è innegabile, ma bisogna anche sottolineare, che non ha
messo in pericolo assolutamente nessuno, se non se stesso.
E il fatto di essere uscito illeso dalla valanga non era solo
dovuto alla fortuna, ma anche a una serie di provvedimenti,
che Elmar ha adottato.
Lei nel suo articolo ha violato almeno tante regole quante
ne ha violate il nostro eroe e di buon senso neanche l'ombra,
perciò si ritenga un giornalista miracolato!
DirLe che mi sono stupito, che un'incidente, che non ha
causato nessun danno ne a cose ne a persone, trovi uno spazio
così sostanzioso.
Cominciate a pubblicare nome e cognome di guidatori imprudenti
e/o alcoolizzati, che causano incidenti con morti, feriti
e danni a volte impressionanti e vedrete che lo spazio per
la pubblicazione di articoli del genere diminuurà notevolemnte.
Lei NON DEVE usare un'arma così affilata contro chi non fa
altro che andare in montagna a sfidare se stesso e comunque
non riesce a difendersi in maniera opportuna da attacchi
giornalistici inadeguati!
Mai e poi mai stiamo cercando,come lei sostiene, una sfida
assurda alla morte!
Queste righe glieLe sto scrivendo da persona che frequenta
la montagna più o meno regolarmente e le assicuro che il
fatto di conoscere il sig. Thaler
Elmar personalmente non ha in-fluito sull'opinione riguardo il
suo articolo.
Finché non ci sono pericoli per persone e/o cose ritengo sia
nostro diritto frequentare la montagna a modo nostro, magari
anche sbagliando.
Di conseguenza Lei non ha nessun diritto, né legale né morale,
di giudicare IN PUBBLICO una persona. Lo faccia tranquillamente
in privato, nessuno glielo impedisce.
Distinti Saluti
REINHARD SCHWIENBACHER
(Lana)
Un pezzo giornalistico per dirsi un buon pezzo deve
rispondere nelle prime
dieci righe a cinque domande: chi, dove, quando, come e perché. Un pezzo
giornalistico per dirsi un buon pezzo deve limitarsi a riportare i fatti. Il
giornalista che non rispetta queste regole fondamentali non è un buon
giornalista. Commenti, predicozzi, giudizi ecc. ecc. non dovrebbero
mischiarsi alla cronaca».
«Se devi farli, scrivi un fondo, una lettera».
Questi sono solo alcuni degli appunti che mi ha mosso la collega
che come me, si occupa di cronaca nera sulle pagine de
"l'Adige" e del "Mattino" quando ha letto in anteprima il
mio
pezzo sulla valanga. Avrei potuto cambiarlo. Avrei potuto limitarmi
a far parlare i dati, omettere il nome del protagonista,
o evitare di firmare come faccio per il 90% degli articoli,
quelli, diciamo così, rispettosi dei canoni giornalistici.
Ma non ho fatto nulla di tutto questo, ben sapendo che mi sarei
tirato addosso critiche come quella del signor Reinhard
Schwienbacher.
C'è qualcosa di più o di meno
- stando ai miei colleghi la seconda - del "bravo giornalista"
dietro quell'articolo di cui non rinnego una virgola.
Un impasto di notizie e impressioni raccolte sul posto della
valanga (i cartelli di stop per pericolo valanghe, il metro di
neve fresca e accumulata dal vento pronta a staccarsi al minimo
sovraccarico, il rischio marcato tre del bollettino valanghe
di quei giorni) e di ricordi personali tristissimi.
Quel pezzo è stato scritto di pancia, con una rabbia che non
potevo spiegare sulle colonne del giornale. Si trattava di qualcosa
di troppo personale, che però grazie alla lettera del signor
Schwienbacher mi sento autorizzato a mettere in piazza.
Il 20 febbraio di un anno fa, in val Senales, un cinofilo del
soccorso alpino della guardia di finanza è morto sotto una valanga.
Con i suoi colleghi stava cercando uno snow boarder austriaco
disperso, ritrovato morto qualche mese dopo in una zona interdetta al
fuoripista.
Quel finanziere aveva 30 anni e anche se il turista aveva
messo a repentaglio solo la sua stessa vita, a cercarlo ci è dovuto
andare lui, con il suo cane Chico e con i suoi colleghi.
Una valanga l'ha travolto nelle concitate fasi della ricerca,
seppellendolo sotto tre metri di neve. Morto.
Si chiamava Stefano Gottardi, quel finanziere, ed era mio fraterno cugino.
Quando ho scritto di Elmar Thaler e della valanga senza
conseguenze sul Cermis forse, come mi rimprovera il signor
Schwienbacher, non sono stato professionale. Non sono riuscito
a scindere lavoro e vita vissuta.
E non ce l'ho fatta a dimenticare l'assoluzione in un
processo per procurata valanga
di una guida alpina contro la quale Stefano aveva testimoniato,
giunta dieci giorni dopo il suo funerale con il contestuale
e tragicamente ridicolo minuto di silenzio nell'aula del tribunale, per
commemorarlo.
Eppure, proprio per questi motivi, riscriverei tutto, perché non
è vero - come afferma il signor Schwienbacher, smentito dalla
fine fatta da mio cugino -, che con certe condotte, non si metta
in pericolo assolutamente nessuno, se non sé stessi.
E passi se l'incidente accade solitari dove è scontato che
uno si avventura a proprio ri-schio e pericolo e forse nemmeno
pretenderebbe di venir cercato se gli accadesse qualcosa.
Sul Cermis, tuttavia, c'erano cartelli chiari che mettevano in
guardia dalle valanghe (non era un divieto, è vero, ma un'intimazione
a fermarsi sanzionata
con 30 euro di multa, che è poi la stessa cosa), c'era neve
freschissima, abbondante e accumulata
su quel pendio dal vento. Decidere di tagliarlo con
gli sci è stata una scelta che sfido chiunque, lo stesso Elmar
Thaler che pure quel giorno avevamo cercato di raggiungere al
telefono, a dire fondata sul buon
senso. O forse Thaler era alla ricerca di un disperso? Probabilmente
voleva diventarlo, mala fortuna - prima che la sua indiscutibile
bravura sottolineata dal signor Schwienbacher e mai
messa in dubbio dal sottoscritto - gli ha evitato questa esperienza
dall'esito incerto.
PIETRO GOTTARDI
Egregio giornalista Pietro Gottardi, egregio signor Reinhard
Schwienbacher,
dopo aver letto con molto interesse il Vostro botta e risposta scaturito
dall´articolo apparso il 6 aprile dal titolo "Stuzzica la valanga, ma ne
esce illeso", vorrei fornire il mio piccolo contributo alla discussione.
Premetto che scrivo questo paio di righe nella mia doppia veste di
appartenente all´Arma dei Carabinieri e di appassionato di scialpinismo.
Ben lungi dal volermi addentrare in questioni deontologiche inerenti la
figura professionale del giornalista e sorvolando su questioni prettamente
tecniche, anche se non marginali e sulle quali sarebbe opportuno primo o
dopo fare maggiore chiarezza, quali l´attribuzione del corretto significato
legale di alcuni cartelli (di avvertimento o di divieto?), vorrei solamente
porre l´accento sull´interpretazione, per non dire ovvia conclusione, che si
può ricavare leggendo lo sfogo del sig. Gottardi: tutti gli scialpinisti
devono sentirsi moralmente responsabili della tragica morte del finanziere
Stefano Gottardi, in considerazione del potenziale pericolo al quale
giornalmente sottopongono il personale addetto al soccorso, causa
l´esercizio della loro passione.
Capisco il coinvolgimento personale nella vicenda; capisco il potenziale
pericolo che uno scialpinista può arrecare ad eventuali terze persone ed il
conseguente doveroso instaurarsi, all´accertamento di particolari
circostanze, di un procedimento penale; quello che non capisco però è come
si possa assurdamente pensare che chi pratica questi tipi di sport, che per
loro stessa natura comportano un quoziente di rischio, modificabile dal
comportamento umano ma mai del tutto annullabile, abbia la cosciente volontà
di mettere a repentaglio anche la vita dei suoi potenziali soccorritori.
Volendo accettare questo concetto, bisognerebbe bandire il 90% circa delle
attività umane. Non si può criticare la libera scelta di una persona di
svolgere un´attività, professionale o ludica che sia, che comporti qualche
forma di rischio, solo perché ciò potrebbe comportare l´intervento di
un´altra persona che a sua volta si espone al pericolo.
Mi pare un concetto un tantino forzato. Credo ingiusto procedere ad una
criminalizzazione indiscriminata. Lo stesso giorno della valanga sul Cermis,
moltissimi erano gli scialpinisti in giro per queste montagne e non penso
che sia stato solo un puro caso o merito della dea bendata se non è loro
accaduto nulla. Presumo altresì che nessuno di loro, pur cosciente
dell´esistenza di un apparato di soccorso, abbia pensato ai possibili
eventuali riflessi che la loro attività avrebbe potuto avere nei confronti
dei suoi appartenenti. Ma non certo, a parer mio, per mancanza di buon senso
o scarsa sensibilità nei loro confronti.
Senz´altro ancora più numerosi erano coloro che, in altri luoghi e sotto
altre forme, hanno condotto un´attività "a rischio", senza con questo
trovarsi contro le critiche di nessuno.
Sono dell´avviso che l´attività di soccorso rientra nel più vasto concetto
di assistenza verso il prossimo che ogni società evoluta sente e sviluppa
autonomamente al suo interno.
Ritengo che l´attività di soccorso, così come normalmente compresa, sia nata
per venir incontro a questa necessità, al desiderio della stessa società di
fornire assistenza ai suoi appartenenti.
L´ipotesi contraria (il cittadino che autonomamente regola il suo
comportamento in primis per rendere superfluo il suo eventuale soccorso),
anche se auspicabile e da incoraggiare, appare all´origine azzardata.
L´appartenere all´Arma dei Carabinieri, mi induce poi a esternare un´altro
concetto. Chi indossa l´uniforme, caro Gottardi (dico questo fermamente
convinto di condividere l´opinione del Suo compianto cugino), aiuta il
prossimo innanzitutto per sua intima, libera scelta. Chi poi appartiene ad
una qualsiasi organizzazione professionalmente e stabilmente votata al
soccorso, come - nel caso specifico - una Squadra di soccorso alpino della
GdF, risulta altresì vincolato da un preciso obbligo professionale e per
tale motivo viene specificatamente preparato, addestrato e, particolare non
trascurabile, pagato per svolgere questa meritoria e pericolosa attività.
È vero. I comportamenti umani sono talvolta viziati da eccessiva leggerezza
e scarso buon senso, talvolta l´esperienza non è mai abbastanza o la si
dimentica volentieri a casa. Soprattutto quando la gente va a divertirsi, si
ritiene spesso autorizzata a comportamenti "fuori dalle righe".
Scagli la
prima pietra chi si ritiene al di fuori di questa logica.
Per mantenere però tutto questo in ragionevoli limiti, evitando di
fagocitare insensibilmente tragedie umane come risultato del destino e
cercare, semmai, di migliorare la situazione, ritengo sia più utile,
piuttosto che additare i singoli comportamenti generalizzando poi le colpe,
incentivare la cultura della sicurezza, in tutti i settori ed a tutti i
livelli, combattendo aspramente ogni forma di eccesso e sensibilizzando
chiunque su un maggiore rispetto innanzitutto di se stessi e della propria
vita e conseguentemente ad apprezzare maggiormente anche l´attività, non
scontata e mai banale, del prossimo.
Daniele Fellin - Bressanone