Gran Sasso: una gita finita in
tragedia. Individuati grazie al telefonino
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Persi per 50 ore nella neve Due in
salvo, il terzo muore
In una
buca per resistere alla bufera, aiutati da un cagnolino
DAL NOSTRO INVIATO
TERAMO - Un giorno e una notte, con la neve che turbinava intorno,
cancellando tutto. Un giorno e una notte con il gelo
che mordeva mani e piedi, una buca come riparo. E
un cane, un bastardino senza nome. Salito dal
rifugio Julia fino al loro precario riparo: per ore
ha cercato di aiutarli come poteva, accucciandosi accanto a loro, leccando il
viso di quelli che si stavano lasciando andare. Per uno di loro anche le
commoventi attenzioni del piccolo cane sono state però inutili: la montagna
lo aveva piegato per sempre.
Erano partiti in tre, tre amici legati dall’amore per la montagna. Andrea Marrancone, 25 anni, direttore tecnico
di una piccola fabbrica che produce stampi per sanitari. Ermanno Santucci, 33 anni, e Claudio
Puglia, 48 anni, capo reparto in una ditta di materiale sanitario. Il
più esperto, la guida. Sono tornati a valle vivi
soltanto in due: Ermanno non ce l’ha fatta, è morto di freddo e di fatica.
«Li abbiamo trovati in un canalone, a 150 metri dalla vetta del Pizzo di
Moscio - racconta adesso Leucio Giusti, uno dei due
finanzieri del Soccorso Alpino che hanno ritrovato gli escursionisti -. C’era nebbia, non si vedeva niente. Poi per pochi minuti si
è sollevata, e li abbiamo visti. Assieme a Germano Ranieri, il mio compagno,
gli abbiamo dato della cioccolata e del the caldo. Il più anziano, piangendo,
ci ha indicato dove era rimasto l’altro, Ermanno. Avevano piantato due
racchette nella neve per ritrovarlo. Non era più lucido, delirava, ci ha
raccontato Puglia. Lo abbiamo lasciato dopo avergli dato uno dei nostri
giubbotti, ha spiegato: volevamo accelerare la discesa per chiedere
aiuto...».
Giusti e Ranieri erano saliti per il secondo giorno
verso la vetta del monte, con gli sci da alpinismo. «Lunedì avevamo trovato
un tempo infernale, una bufera di neve come non se ne vedeva da tempo. Con il vento la
temperatura era a meno 20, e abbiamo corso il rischio di congelamento anche
noi», racconta Giusti. «Ieri mattina sembrava uguale: visibilità non più di
10 metri, un freddo atroce. Poi la nebbia si è alzata, per fortuna. Comunque averne trovati due vivi dopo 3 giorni è stato un
mezzo miracolo... Certo, erano abbastanza pratici, avevano un’attrezzatura
piuttosto buona. E se non fosse stato per il tempo,
l’escursione che avevano programmato era poco più di una passeggiata».
All’ospedale di Teramo Andrea e Claudio ci sono
arrivati con un elicottero della Forestale. Avevano un principio di
congelamento alle mani e ai piedi, ma niente di drammatico. «Andrea adesso è sereno, sta bene - assicura Marco, il fratello maggiore
-. No, non gli abbiamo ancora detto di Ermanno.
Erano amici da poco tempo, ma la montagna lega molto
le persone». Anche Marco è uno che va in montagna: loro sono nati ai piedi
delle montagne, il Gran Sasso è lì a pochi chilometri che incombe
sulla vallata. «Eravamo saliti lassù anche una settimana fa - racconta Marco
-: era una bellissima giornata di sole, in 3 ore e mezza siamo
arrivati fino in cima, a 2400 metri. Invece adesso
Andrea mi ha raccontato che la tempesta che li ha sorpresi domenica era
terribile, la peggiore che avesse mai visto in vita sua».
Quando avevano visto la neve turbinare attorno a loro,
i tre avevano avvertito con il cellulare le famiglie. Poi però il freddo
aveva finito per congelare le batterie, e i telefoni erano rimasti muti.
«Lunedì sera, quando le squadre di soccorso sono tornate a
mani vuote, abbiamo cominciato a pregare», dice ora Marco. Ma ieri mattina Andrea, che aveva tenuto il telefono sotto
i vestiti, ha provato a chiamare Francesca, la sua fidanzata. Uno squillo
appena. Quanto bastava per dire al mondo che erano ancora
vivi, e per aiutare le squadre di soccorso, che grazie al segnale del
telefonino hanno potuto circoscrivere al massimo le ricerche.
«E’ stato proprio il pensiero di Francesca a darmi la forza
di resistere - sussurra Andrea -. Abbiamo cercato di camminare sempre:
era l’unica cosa da fare in quelle condizioni...». Claudio, il «vecchio» del
gruppo, si sente addosso il peso della
responsabilità di quello che è accaduto. «Ho lasciato tutta l’energia e la
forza su quella montagna», dice. E racconta che la neve aveva
ridotto la visibilità a zero, domenica mattina: «Abbiamo sbagliato
canalone, ma non ce ne siamo accorti subito. Poi è arrivato il buio. Abbiamo
scavato delle buche nella neve per ripararci, è stato il momento più
difficile... Ho dovuto scegliere di lasciare in
dietro Ermanno: non ce la faceva più, camminava troppo piano, non era lucido.
Ho pensato che fosse giusto accelerare e andare a cercare i soccorsi».
Ieri mattina gli elicotteri della Forestale e dei vigili del fuoco erano
tornati a volare sopra il Pizzo di Moscio. Avevano portato le squadre di soccorso
il più in alto possibile, i finanzieri del Soccorso Alpino de
L’Aquila, comandati dal maresciallo Paolo Passalacqua,
un marsicano tosto e sereno, avevano cominciato a
scandagliare il pendio. E alla fine quella buca nella neve, due paia di occhi colmi di paura e di stanchezza. Era finita.
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