Un altro week-end, ed eccoci a
dover nuovamente assistere a una o più disgrazie
capitate ad alpinisti che si muovono nella montagna invernale, vuoi su
ghiaccio, vuoi su neve con o senza gli sci. Mi ha colpito in modo particolare
l'incidente accaduto sul Monte Zevola, nelle Piccole Dolomiti, montagne a me
note e da me frequentate sia nella loro veste estiva che invernale; il Vajo
dell'Acqua, che al Vajo Battisti è vicino e parallelo, e spesso con esso viene confuso) è stato da me salito e disceso con gli
sci, così come molti altri vaj e canaloni della zona. L'incidente, a quel che
si può capire, è stato provocato dal distacco di un lastrone nella parte finale
della salita, nel tratto più ripido del Vajo. In calce alle scarne
cronache giornalistiche, i soliti commenti e le solite opinioni di soccorritori
ed esperti, più o meno improntate a generiche affermazioni tipo"la
montagna è pericolosa" "è stata una fatalità" "non si
poteva prevedere" e via dicendo. Ma siamo proprio
sicuri che sia così? E' sempre rischioso fare commenti su uno specifico
incidente senza conoscerne a fondo la dinamica e i
protagonisti, e infatti vorrei evitare di soffermarmi su questo in particolare;
il singolo evento può sempre essere dovuto alla coincidenza di condizioni
particolari, ad un fatto realmente imprevedibile. Quando però gli incidenti si
ripetono ogni domenica, spesso con modalità simili,
non possiamo più parlare di casualità, di destino avverso, ma dobbiamo
chiederci se ci sia un filo che lega gli eventi, e se noi tutti, semplici
frequentatori della montagna invernale o addetti a vario titolo al soccorso e
alla sicurezza, possiamo fare qualcosa per ridurre il ripetersi di eventi
tragici, che ci portano via amici e compagni di
scalate, o anche semplici "compagni di passione".
La frequentazione invernale della montagna, anche al di fuori dei tracciati
battuti, sta sempre più diventando un fatto di consumo, un fenomeno di massa.
Le riviste e i media specializzati ci propongono in confezioni superpatinate
attività sempre più spinte, appannaggio di pochi ma
che si suppone piacciano a molti; non si parla più di scialpinismo, adesso va
di moda il free-ride; non esiste più la neve in tutte le sue varianti, conta
solo la "powder"; le foto dei servizi ci propongono pendii sempre più
ripidi, alpinisti sempre più griffati, ghiacciatori attaccati a sempre più
improbabili candele sospese nel vuoto; il pericolo, componente essenziale di
tutte queste attività, semplicemente rimosso, la prudenza dimenticata, d 'altra
parte ricordare che queste sono attività in cui ci si può ammazzare
rischierebbe di far calare le vendite, o no? In parallelo, vedo da parte degli
alpinisti una sempre più preoccupante tendenza a dimenticare vecchie,
elementari regole di prudenza, una frequentazione di cime e itinerari, che
prima venivano riservati a ben determinate stagioni,
in qualsiasi periodo e condizione di innevamento.
Quello di quest'anno è stato un inizio inverno molto nevoso, seguito da un
gennaio molto rigido e con forti venti in quota, che hanno causato ovunque la
formazione di pericolosi accumuli; eppure basta una giornata di sole, ed ecco
frotte di alpinisti lanciarsi su itinerari che sarebbe prudente lasciar perdere
per almeno qualche settimana, per permettere alla neve di assestarsi. Qui la
fatalità non c'entra più, qui se ti va bene sei fortunato, ma se ti va male torni
a casa contando gli amici persi, o non torni proprio a casa. Il fatto che nove
volte su dieci vada bene non significa che avevi ragione, significa solo che
hai avuto fortuna, e basta che una volta su dieci vada male per far pendere
drammaticamente la bilancia dalla parte del torto. Eppure
si parla di fatalità. Io alla fatalità non ho mai creduto, e sempre meno ci
credo adesso. Frequentando su internet i forum di discussione sulla montagna,
spesso mi capita di imbattermi in gente che si scambia informazioni su
itinerari da percorrere la domenica, e a volte mi è capitato di pensare: questi
si vanno a suicidare. Se glielo fai notare, spesso
vieni poco educatamente invitato a farti gli affari tuoi.
Sarò di idee antiquate, ma in vent'anni e più di frequentazione invernale della
montagna ho imparato che questo è un ambiente naturale in cui devi entrare in
punta di piedi, costruendoti un bagaglio di esperienze e di nozioni che è
l'unico metodo per divertirsi senza rischiare ogni volta la pelle, imparare a
rinunciare quando è il caso, imparare a scegliere l'itinerario in funzione
delle condizioni della neve e della loro evoluzione durante tutte le settimane
precedenti, avere l'umiltà di scegliere un itinerario meno prestigioso ma
sicuro quando le condizioni non sono favorevoli.
Queste cose mi sento di dire forte e chiaro, con la
morte nel cuore per la perdita di altri giovani appassionati della montagna, ma
convinto che solo chiamando le cose col loro nome, ed evitando di nasconderci
dietro al dito dell' ineluttabilità del fato, riusciremo a far si che alcune di
queste tragedie possano essere evitate nel futuro.