CAINO, gli dissero. Aveva abbandonato il fratellino. Gunther
aveva solo 24 anni. Non lo aveva cercato abbastanza, aveva
solo pensato a mettersi in salvo. Nanga Parbat significa montagna nuda. La chiamano anche la vetta
del destino, perché sopra ci stanno i demoni. Lui e Gunther
l'avevano conquistata. Brutta parola, conquista. La
montagna è tua per un attimo, mai per sempre.
Furono costretti a scendere lungo la parete ovest, sconosciuta. La valanga
seppellì il fratellino. Reinhold lo chiamò e lo
cercò. Niente, nessuna risposta. Con le punte dei piedi congelati si trascinò
lungo la valle di Diamir. Tre
giorni senza bere, cinque senza mangiare. In mezzo al ghiaccio senza
riparo. Il difficile telegramma da mandare alla madre: Io torno. E Guenther? Mancava il coraggio di
dire: lui no. Puoi essere
grande sulla vetta, arrampicare bene, ma come spieghi a tua madre la fortuna
che ha salvato te, solo te? Reinhold tornò:
depressione, tre mesi in clinica, parecchie dita dei piedi amputate, perdita
del senso d'equilibrio. Il suo mondo lo accusò di non avere fatto abbastanza. L'eroe vigliacco, quello che lascia il fratellino ferito alle prese
con la paura, nell'illusione che tanto l'altro tornerà a cercarlo. Basta
aspettare, ora aspetto. Reinhold?
Trentacinque anni non sono un'attesa, ma un'eternità ben conservata. La
montagna congela: assenze, corpi, memorie. E poi un
giorno ti riconsegna tutto intatto: anche il dolore. Senti tutto, come allora.
L'Everest sei anni fa ha restituito al mondo Gorge Mallory. A faccia in giù, le braccia larghe. Era scomparso
in una nube nel 1924, con Andrew Irvine.
La corda che gli passava attorno alla spalla era intatta, il vestito a
brandelli, ma la maglia di lana e il tweed pesante dei pantaloni si
riconoscevano. Nelle tasche aveva gli occhiali di vetro nero e sul petto le
lettere di sua moglie Ruth. La montagna con le sue temperature da freezer
conserva, il resto lo fanno i ghiacciai quando si
ritirano.
Sull'Himalaya le pompe funebri non esistono,
nessuno può fermarsi a dare pietà a quelle che sono ormai statue di ghiaccio.
Non c'è tempo per fare i becchini, non ce n'è nemmeno per soccorrere i vivi,
che vengono molto in fretta scambiati per morti. Non è
bello dirlo, ma l'ultimo chilometro dell'Everest sembra una scultura di neve
uscita dalle mani di Edgar Allan Poe. Un cimitero a cielo aperto, i cadaveri
dell'avventura.
Il fratellino adorava Reinhold,
l'avrebbe seguito in capo al mondo. Reinhold
era fiero di lui. Il Nanga Parbat
è la fine del mondo:
Partirono alle due, sotto un cielo stellato. Che
fortuna, pensarono. Spuntò anche la luna. Guardarono in alto: il Nanga Parbat sembrava un'isola
sulle nuvole. Guenther si fermava sempre più spesso,
per riposare e fotografare. Messner scriverà:
"Scivoliamo leggeri sulle valli, eppure così pesanti. Così lontani dalla
terra e da noi stessi". Nessuno di loro due era mai stato su un ottomila.
Lassù si tolsero i guanti e si diedero la mano.
Pudore dei sentimenti. "Una specie di gioia", dirà timidamente Reinhold. Tutta una vita a ripensare a quell'attimo. Ci siano parlati, ci
siano detti qualcosa? L'ultimo attimo con il fratellino. "Vedo
sempre gli occhi di Guenther come allora". Reinhold abbandona sulla vetta i suoi guanti norvegesi duri
e congelati. "Sono stanco", dice il fratellino. Reinhold
gli indica la discesa. "Dobbiamo trovare una via più facile",
risponde Guenther. Reinhold
pensa: sei tu che devi. Bivaccano: - 30 o - 40?. Vanno
in ipotermia. "Reinhold, dammi la coperta",
chiede il fratellino. "Quale coperta?". "Quella lì per
terra". "Non c'è nessuna coperta". Guenther
ha le allucinazioni. È come narcotizzato, si muove lentamente, è inquieto,
barcolla. I due sperano nei soccorsi. Reinhold pensa
la verità: forse da solo potrei farcela attraverso la vetta sud. Ma ha il fratellino.
Provano il versante Diamir, quattrocento metri di
pericoli e misteri.
Un'incoscienza, diranno gli esperti. Nebbia, temporale,
buco nero, terreno ripido Secondo bivacco. Guenther
sempre più pazzo: "Sono già stato qui". Reinhold:
"Ti sbagli". Scende prima Reinhold, pensa
che il fratellino sia dietro. Rimbombano le valanghe. Guenther?
Non arriva, non ancora. Reinhold è
stanco, sente tante voci, anche quella di sua madre. Dov'è
Guenther? Passa un'ora. Di lui non c'è traccia. Il
sole tramonta. "Non potevo tornare a casa da solo". Un urlo, tanti urli: Guenther. La faringe si
piaga. Reinhold scese, il fratellino no. Al campo base Herrligkoffer che guida la spedizione è polemico:
"Avevo i miei motivi per non assegnare a Guenther
Messner un posto in prima linea nella scalata". Reinhold si sente amputato: "Pensai a mia madre".
Herrligkoffer dà la sua versione: "Reinhold ha messo il gioco la vita del fratellino per
ambizione, lo ha perso salendo, non scendendo". Caino. Reinhold
finisce nella clinica universitaria di Innsbruck. Suo padre lo rimprovera: "Dov'è Guenther?". Perché hai voluto che venisse con me, papà?. Reinhold tornerà sul Nanga Parbat altre volte, nella
valle del Diamir. Con un altro fratello, Hubert. "perché solo
soffrendo fame e freddo insieme si raggiunge una vera affinità". Ma sempre sentendosi perduto. E ne
perderà un altro, Siegfried, nell'85 sulle torri del Vajolet,
colpito da un fulmine. Ieri sul Nanga Parbat è stata la sua ultima volta. Trent'anni
per ritrovare il fratellino. Guenther, ti riporto a
casa.
Emanuela Audisio