Pietro Negri. Una storia di morte e di silenzio. Con versi dal poemetto di
G. Napoleone Besta
23 Gennaio 2007
Nel vecchio cimitero di San Giacomo di Teglio,
una lapide ricorda tre giovani deceduti il 12 novembre 1937, travolti da una
valanga in Val Belviso. Si tratta di due fratelli di
25 e 22 anni e del loro amico di 23. Quello che lascia attoniti è la dedica
incisa sotto le fotografie dei tre giovani, e che così dice:
«Sepolti da una valanga al passo Venerocolo
il 12 novembre 1937, crudelmente abbandonati nel pericolo dai propri compagni
in balia della morte, lasciando nell’angoscia e nel rimpianto le famiglie,
parenti ed amici». Accusa tremenda. Incisa sul marmo a condanna perpetua. Ma
cosa era successo al passo del Venerocolo in Val Belviso, quel triste giorno di circa settanta anni fa?
Cercai di saperne di più. Ma sia per il tempo trascorso che per la scomparsa
dei sopravvissuti e dei loro coetanei, poche sono le
persone che oggi ricordano, seppur a grandi linee, quel tragico avvenimento.
Quel che sono riuscito a ricostruire è che i tre giovani, coi loro compagni,
poi sopravvissuti, erano giunti al passo del Venerocolo di ritorno dalla confinante bergamasca
valle di Scalve, dopo avervi là portato un carico di
contrabbando. Si trattava cioè di un gruppo di giovani spalloni.
Una delle tante spedizioni col “sacco” che tanti giovani di allora
intraprendevano pur di raggranellare qualche soldo per integrare il magro
bilancio familiare. Ciò che rimane sconosciuto è il perché i sopravvissuti -
che, sembra, fossero due - e stando all’accusa, non abbiano cercato di
soccorrere i loro compagni travolti dalla valanga. È difficile giudicare oggi
quel fatto, sia perché le relative notizie sono ormai sfuocate nel tempo, sia
perché non conosciamo, in particolare, se gli accusati siano
stati o no anche loro, tanto o poco, interessati dalla valanga. E se sì,
in che condizioni fisiche e psichiche ne fossero usciti. Appena la notizia
della tragedia fu conosciuta, subito partirono i soccorsi, ai quali toccò il
triste compito di recuperare le salme dei tre giovani sfortunati.
Questa tragedia produsse, come naturale, grande dolore e
sconforto in paese, mentre sulla stampa locale la notizia, pur tanto rilevante,
ebbe pochissima risonanza. Infatti tutto si limitò ad
un trafiletto di poche righe, sull’unico giornale di regime rimasto in vita in
provincia, dopo che tutti gli altri, di varia tendenza, erano stati soppressi.
Il trafiletto terminava così: «I tre giovani erano partiti il 9 corrente da Teglio (S. Giacomo) diretti in Valcamonica
in cerca di lavoro».
Classico esempio questo di somma disinformazione. Ma si
era nel 1937. L’Italia era in pieno regime fascista. Il contrabbando era
particolarmente perseguito e i contrabbandieri ritenuti non solo evasori del
dazio, ma addirittura traditori della patria. L’Italia fascista si riteneva
ormai grande potenza imperiale (almeno così la davano ad intendere) e quindi
non voleva ammettere che tre giovani italiani avessero perso la vita in una
drammatica traversata alpina, pur di guadagnare qualche lira per tirare avanti
la “baracca”.
Così si arrivava con il massimo cinismo, oltre che con somma
stupidità, a raccontare che tre giovanotti di S. Giacomo di Teglio
avevano perso la vita perché, volendo andare in Valcamonica
a cercare lavoro, avevano preso l’impervia mulattiera di alta montagna del
passo del Venerocolo, invece che la comoda strada
carrozzabile del passo dell’Aprica.
Cose assurde. Ma si sa che questo è il mondo che
costruiscono le dittature, di qualsiasi colore esse siano, quando trasformano
il popolo da un insieme di cittadini in una massa di soli numeri.
Il contrabbando tra Grigioni,
Valtellina e Bergamasca, attraverso
Le dure difficoltà, a volte con tragiche conseguenze, erano
le compagne abituali nella attività dei contrabbandieri di alta montagna, tanto
da averne ispirato anche letterati-poeti valtellinesi.
Qui sotto riportiamo come il tellino
G. Napoleone Besta
nel suo poemetto “
(…)
Ed ora per la strada
io
vorrei dall’Aprica nella valle
addurti
di Belviso e meraviglie
mostrarti
nuove, alpini laghi, immense
selve
di picee, gelide sorgenti
inessicate e verdi paschi e cime
inesplorate.
(...)
Da quelle fratte, ove talor s’inspira
il
genio pastoral, che in fra i dirupi
e i
gelati pinnacoli (…)
il
temerario passa contrabbandier.
Ei sulle
bionde ripe del Mella
o fra
le valli del Ceresio
o fra
i maggesi che il bel Serio inonda,
abbandonò
la derelitta sposa
e il
figlioletto, del fuggito padre
sospiranti il ritorno. Ed ahi! che spesso
il
reduce infelice indarno attese
la
piangente famiglia, ché la neve
assiderollo al piede, o la valanga
pria
che morto sepolto dai fuggenti
compagni
lo divelse impauriti.
Misero!
La tua morte a’ tuoi più cari
tante
lagrime costa, ed una sola
tergere
invan t’affideresti adesso,
che
un vil guadagno la tua vita ha spento.
La tua
vita cui pan quotidiano
mercar concesse la sapienza a cui
porge
un saluto l’augellin che migra
quando
beve una stilla, e dalla spica
ciba
un seme sul campo.
Pietro Negri
(da Tirano
& dintorni, gennaio 2007)