Nanga Parbat, la montagna maledetta
L'austriaco Buhl fu il primo ad
arrivare in vetta nel 1953. Decine di
morti sulla cresta "mangiauomini".
Nel 1970 morì fratello di Messner
Nanga Parbat, la montagna nuda
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Redazione il 22 Luglio, 2008 - 10:23
Il Nanga Parbat con i suoi 8125 metri,
è la nona montagna più alta della Terra. Ma in termini di pericolosità, è
in testa alla classifica. Basti pensare che il suo nome significa "montagna
nuda" in lingua Urdu, ma gli sherpa, gli abitanti della regione himalayana,
la chiamano "la mangiauomini" o la "montagna del diavolo".
E' drammatica, infatti, la sua storia: prima di essere conquistata nel 1953,
8 spedizioni l'avevano già tentata provocando 31 morti, molti dei quali tedeschi.
Tra le più celebri quella di Albert Frederick Mummery che ha perso la vita
sulla parete Rakhiot.
"Il Nanga
Parbat è una delle montagne più ambite dell'Himalaya, e il più occidentale
degli ottomila. Il suo massiccio, di dimensioni enormi, domina l'imponente gola
del fiume Indo; è una visione impressionante, e io rimasi alcuni minuti senza
fiato quando mi trovai per la prima volta di fronte a quella forza della
natura. Da qualunque lato si affronti il Nanga Parbat, ci si trova sempre di
fronte a 4000 metri di dislivello da superare, più che nella salita
dell'Everest, tanto per fare un esempio".
Con queste
parole Hans Kammerlander apre il racconto della sua salita al Nanga Parbat, nel
suo libro "Malato di montagna": questo colosso pakistano, tanto
affascinante quanto pericoloso, rappresenta nella storia dell'alpinismo una
delle sfide più difficili tra tutti i 14 ottomila.
La montagna
è costituita da tre versanti: a nord il Rakhiot, a ovest il Diamir e il Rupal a
est. Dei tre lati quello più difficile è forse la Rakhiot, che come tutte
le pareti nord, è meno soleggiata, più ripida, coperta di accumuli di neve e
ghiaccio, e quindi più ostile. Fino alla scalata di Karl Unterkircher, Walter
Nones e Simon Kehrer vantava solo due vie di salita, entrambe peraltro aperte
sul bordo del versante: quella usata da Hermann Buhl nella prima salita del
1953 e e quella dei giapponesi del 1995.
La
spedizione dei tre alpinisti italiani che oggi è sotto i riflettori delle
cronache è la prima, nella storia, ad aver avuto il coraggio di affrontare
questa parete dritti al centro. Ora, là nel cuore della Rakhiot, campeggia
quindi un'altra via, aperta da Nones, Kehrer e Unterkircher che ha perso la
vita durante la salita.
Sul versante
Diamir invece si trova la "via normale", la Kinshofer, aperta nel
1962: il percorso non sale in mezzo alla parete, resa pericolosa da frequenti
valanghe provenienti dal ghiacciaio pensile. La Kinshofer sale lungo lo sperone
sul lato sinistro della parete. Sempre sul Diamir si è svolto il tentativo di
salita di Mummery del 1895. Mummery circa a quota 6100 attraversò il Diama Pass
raggiunendo la parete Rakhiot, dove il grande scalatore perse la vita. Ancora
sulla parete Diamir si trova la via di Messner, che l'altoatesino aprì in
solitaria (la prima completa) nel 1978.
Reinhold
Messner e suo fratello Gunther furoni i primi a conquistare la cima dalla
parete Rupal, nel 1970. Salirono in stile alpino, senza ossigeno e senza
portatori. I due, a causa della stanchezza accumulata da Günther durante la
salita, dopo aver raggiunto la vetta decisero di scendere dalla più agevole
parete ovest. Dopo aver bivaccato più giorni all'aperto, quando erano quasi
arrivati alle pendici della montagna, Günther Messner fu però travolto da una
valanga e morì. Questa versione, contestata da alcuni, poté essere confermata
solo nell'agosto 2005 quando fu ritrovata la salma.
Il Nanga Parbat è famosa come la "montagna dei tedeschi". Negli anni
'30 infatti, partirono dalla Germania numerose spedizione che tentarono di
conquistarla: è loro il più grosso tributo di vite versato su questa vetta.
Ma la salita
più celebre sul Nanga Parbat rimane la prima, quella realizzata dal leggendario
Hermann Buhl. La sua ascensione in solitaria fu tentata contro la volontà del
capo spedizione Karl Herrligkoffer, che aveva dato l'ordine di tornare
indietro. Buhl non gli diede retta e arrivò in cima, ma dovette poi passare la
notte in piedia ottomila metri, perchè il terreno scosceso non gli consentiva
di sdraiasi. Buhl non era attrezzato in modo particolarmente adatto a
difendersi dal freddo e si ridusse al limite delle forze, riportando anche
gravi congelamenti.
Buhl dalla
cima del Nanga Parbat portò una foto fatta con l'autoscatto (unica prova della
sua grande impresa) e un racconto memorabile, scritto nel suo libro "E'
buio sul ghiacciaio". Da lì è tratta questa breve citazione che lascia i
brividi.
"...Si
ha l'impressione di planare sopra ogni cosa, di aver perso ogni contatto con la
terra, di essere staccati dal mondo e dall'umanità. Mi sembra di trovarmi su
una minuscola isola in mezzo ad un oceano sconfinato. Verso nord, possenti
montagne si perdono nel remoto orizzonte. Ad est si estende un altro ed analogo
mare di innumerevoli cime, coperte di ghiaccio, inviolate, inesplorate:
l'Himalaya."