Il Vallese è per gran parte dell’anno una vallata
soleggiata a vocazione eminentemente turistica. Possiede ben 120 destinazioni
invernali ed estive. Un forte richiamo è dato dalle sue 51 cime oltre i 4000
metri, ma anche dalle innumerevoli escursioni che offre ai meno
ardimentosi a diverse altitudini.
Un’importante fonte di reddito del Vallese proviene tuttavia dallo
sfruttamento delle immense risorse idriche. Nel Vallese si concentrano
i due terzi dei ghiacciai presenti in Svizzera, compreso il più
grande d’Europa, l’Aletsch, che fa parte del Patrimonio mondiale
dell’UNESCO. Questi ghiacciai alimentano innumerevoli corsi d’acqua che
negli anni Cinquanta e Sessanta sono stati sbarrati da poderose dighe,
alcune delle quali sono divenute vere celebrità mondiali. Il Vallese produce
circa un quarto dell’elettricità svizzera. Il solo lago della Grande
Dixence, con la diga in cemento più alta del mondo (285 m), può contenere
fino a 400 milioni di metri cubi d’acqua che permettono di produrre
circa 2,1 miliardi di chilowattora l’anno.
Dopo l’epoca delle costruzioni ferroviarie degli ultimi decenni
dell’Ottocento e il primo del Novecento, gli anni Cinquanta e Sessanta del
secondo dopoguerra segnano l’epopea delle grandi costruzioni idroelettriche
lungo tutto l’arco alpino, ma soprattutto nel Vallese.
Secondo alcune stime, tra il 1947 e il
1970 giunsero in Svizzera complessivamente più di due milioni e mezzo di
lavoratori stranieri
per lo più come stagionali. Gli italiani costituivano la forza lavoro
straniera più importante. Erano da due fino a cinque mila gli stagionali
che ogni giorno nei mesi primaverili tornavano, soprattutto nei cantieri, per
riprendere il lavoro interrotto nei tre mesi invernali. Tornavano, secondo
una simpatica immagine usata in un servizio della televisione svizzera del
1960, “come le rondini a primavera…”, non senza aver prima
subito un accurato controllo sanitario a Chiasso o a Briga. Oltre agli
stagionali uomini destinati soprattutto ai cantieri, c’erano anche numerose
donne che molti svizzeri chiamavano le «rondinelle».
Non erano sempre gli stessi. Dopo molte stagioni
alcuni ottenevano un permesso di dimora annuale. Altri decidevano di non
tornare più. Altri mettevano radici stabili in questo Paese, prendendo magari
la cittadinanza svizzera.
Altri ancora non potevano più tornare perché durante la loro ultima stagione
avevano perso la vita sul lavoro. Era già capitato a molti (un migliaio negli
ultimi dieci anni) e capiterà ancora ad altri, come gli 88 lavoratori, di
cui 56 italiani, che perirono nella disgrazia di Mattmark, nel Vallese.
Era il 30 agosto del 1965.
Dopo quelle del Gottardo, del Sempione e del Lötschberg,
un’altra grande tragedia si abbatté principalmente sugli italiani. Fu
uno dei maggiori contributi di sangue dell’emigrazione italiana al miracolo economico della
Svizzera. Più di un milione di metri cubi di ghiaccio
staccatisi da un ghiacciaio travolse in pochi secondi le baracche dei
lavoratori che stavano terminando la costruzione della diga di
Mattmark nella Valle del Saas.
La tragedia di Mattmark fu simile a quella di Goppenstein del
28 febbraio 1908, quando una enorme valanga travolse uno degli alloggiamenti
del personale addetto allo scavo del tunnel del Lötschberg dal lato
sud, ma ben più grave. I morti allora furono solo (si fa per dire!) 12. In
quell’occasione si parlò d’imprudenza da parte dell’impresa costruttrice del
Lötschberg. Nella disgrazia di Mattmark si trattò ben più che d’imprudenza,
perché il ghiacciaio Allalin, per sua natura instabile, gravava come una
spada di Damocle sulle baracche degli operai. Ma per i tribunali
nessuno poteva essere considerato colpevole e tutti gli imputati furono
assolti. L’opinione pubblica sia svizzera che italiana reagì con
sdegno.
A giusta ragione il sindacato lanciò un atto d’accusa non solo contro
l’azienda costruttrice, ma soprattutto contro la bramosia del profitto, la
cieca fiducia nella scienza, «il delirio d’onnipotenza di un’intera
epoca». Esigeva maggiore sicurezza dei cantieri e maggiori controlli.
Per quegli 88 morti era troppo tardi. Le ragioni dell’economia
sopravanzavano di gran lunga tutte le altre, compresa la sicurezza dei
cantieri. Si disse che le disgrazie sul lavoro erano inevitabili, tanti e
tali erano i cantieri di montagna in quei decenni di corsa frenetica
all’approvvigionamento di energia idrica, non solo nel Vallese, ma in tutto
l’arco alpino svizzero.
Nel 1965, l’anno della tragedia di Mattmark, erano appena terminate
alcune delle dighe più imponenti del mondo, quelle di Mauvoisin, Moiry,
Zeuzier e della Grande Dixence nel Vallese, quella di Luzzone e
di Contra nel Ticino, quelle della Valle di Lei, Nalps e Roggiasca
nei Grigioni, Göscheneralp nel Cantone Uri, ecc. Altri importanti
cantieri erano ancora in attività come quelli delle grandi dighe di Curnera,
Santa Maria e Punt dal Gall nei Grigioni, Hongrin Nord e Sud nel
Cantone di Vaud, Gebidem, Gries e Sanetsch nel Vallese, Cavagnoli,
Sambuco, Vasasca e Robiei nel Ticino, ecc. Quest’ultima conobbe
un’altra disgrazia (17 vittime, tra cui 15 italiani) proprio l’anno seguente.
Sembrava una rincorsa a chi arrivava primo, a chi riusciva a garantirsi i
maggiori benefici, a chi riusciva a imbrigliare più vantaggiosamente le
risorse naturali rinnovabili. Gli anni Cinquanta e Sessanta furono
sicuramente anche un’opportunità per centinaia di migliaia di italiani,
che col duro lavoro riuscivano comunque a risolvere il loro problema
esistenziale. Ma non va dimenticato che col loro lavoro e i loro
sacrifici hanno contribuito a creare in Svizzera un benessere impensabile
prima di allora. Tra il 1950 e il 1975 la Svizzera, anche grazie
al contributo dell’immigrazione, è riuscita a raddoppiare il
proprio prodotto interno lordo.
Oggi il benessere è diffuso e a beneficiarne sono anche i pochi rimasti di
quell’ondata di lavoratori ardimentosi del dopoguerra, ma soprattutto le
seconde e terze generazioni. E’ bene che queste ricordino quanto lavoro,
quanta fatica e quanto sangue ha comportato l’attuale benessere. E se
qualcuno farà un’escursione attorno al lago di Mattmark, fra l’altro
raccomandabile sotto il profilo paesaggistico, non scordi che è anche un
luogo della memoria.
Giovanni Longu
Berna 29.08.2008
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