Non dovevano salire
in quelle condizioni"

Incredulità e dolore in Val Pellice
L'amico: «Ho cercato di fermarli»

 

ANTONIO GIAIMO e ANDREA ROSSI

 

La maledizione della Val Pellice la vedi sulle facce di questa gente che si raduna fuori dal cimitero di Luserna, dove i corpi di Walter Rivoira e Massimo Podio sono già composti sui lettini. Facce di montagna, cupe, negli occhi ancora le tragedie di queste montagne. A maggio la frana di Villar Pellice.

Adesso, poco oltre, ancora più su, la valanga. E altri morti. Alpinisti esperti, quasi professionisti. Gente come Walter Rivoira, che viveva a Torre Pellice, faceva l’impresario edile ma nel tempo libera saliva sulle montagne sopra casa sua, e non solo. Insieme con i suoi amici le aveva fatte tutte, le grandi cime. Salita e poi discesa con gli sci. Imprese come il Monviso e il Monte Bianco. Discese ripide, 40-50 per cento di pendenza, canaloni strettissimi. Adesso c’è la fila di parenti e amici che si radunano fuori dalla camera mortuaria. C’è la moglie, disperata, in lacrime, che porta i vestiti.

Erano alpinisti esperti, i quattro travolti dalla valanga. Delle montagne sopra Torre Pellice conoscevano ogni conca, ogni pendio. Anche quella stessa montagna che, ieri, li ha traditi. «Puoi essere esperto finché vuoi, non basta», dice adesso sconsolato Paolo Ferrero, uno che di montagne se ne intende. Un amico di questi quattro ragazzi: quando loro scalavano le cime e poi scendevano con gli sci lui era lì, faceva le foto.

E adesso non si dà pace. «Io gliel’avevo detto, era un’imprudenza, con questa neve caduta da pochi giorni appena sopra un tappeto di ghiaccio». Eppure non erano sprovveduti, e nemmeno gente da prendere alla leggera la montagna. Il top dello sci fuori pista, dicono tutti, e non solo del Pinerolese. «Non dovevano andare», continua a ripetere Paolo, sull’uscio delle camere mortuarie del cimitero di Luserna. Lui, ieri, è andato a sciare a Prali, sulle piste. «Faceva freddo, tanto, 17 gradi sotto zero».

I suoi amici, intanto, stavano scalando la montagna che li ha uccisi. «Erano dei fenomeni, ma dovevano aspettare ancora. I nostri vecchi lo dicevano sempre: lo sci-alpinismo si fa da febbraio in poi. Perché si rischia. Qui c’era troppa neve fresca, caduta proprio qualche giorno fa, che ha formato un manto inconsistente. E, per di più, quest’anno è nevicato presto, quando la terra era ancora calda. Un altro fattore di rischio». Li ha traditi l’amore per lo sci. «Lassù sali con la neve fin sotto le ascelle, non era da fare adesso. Giovedì gliel’avevo detto. Ma loro sono voluti andare lo stesso». Sapevano di essere i migliori. Forse sono stati imprudenti.

E adesso gli amici mettono in fila le imprese fatte insieme. Raccolte in decine di foto, che poi venivano mostrate durante le serate, gli incontri nei circoli dove si parla di alpinismo e si guardano le diapositive. Oppure immortalate nei libri. Federico Negri, anni fa, ne aveva scritto uno. «Sci ripido». Un titolo che dice tutto di questo gruppo, amicizia nata sulle montagne, cementata sulle cime. Rivoira, un asso. Podio, che faceva il vetrinista, idem. Capone addirittura guida alpina, lui che era nato a Napoli e si era trasferito a Torre Pellice. Lì si erano conosciuti. Poi Negri per anni aveva smesso con gli sci. Un amico era morto, durante un’escursione, e per un po’ non ce l’aveva più fatta a salire e ridiscendere. Poi gli altri l’avevano convinto, o forse era stata quella passione che non se ne va mai.