martedì 22 febbraio 2000

Quattro scialpinisti morti sotto la valanga

Una gigantesca massa di neve ha travolto la comitiva durante la salita al Piz Portles Il distacco causato «di rimbalzo» da un'altra slavina

di Francesco Palchetti

VAL VENOSTA. Lo sci alpinismo continua a mietere vittime. Una sequenza da brivido. Ieri mattina un uomo e tre donne, appassionati di escursioni sulle vette innevate, sono stati uccisi da una valanga di enormi proporzioni staccatasi dalla cresta di Piz Portles, il monte che domina l'ultimo tratto della Val di Mazia.

Altri quattro escursionisti, fra cui le due guide responsabili del gruppo, si sono salvati. Una donna estratta in extremis dai soccorritori è stata ricoverata a Merano. Se la caverà. Una delle quattro vittime, Liselotte Wenter in Röggla, 62 anni, era nata a Merano e risiedeva a Bressanone in Via dei Vigneti 43. L'elenco dei morti comprende altre due donne, germaniche, Simone Gramalla, 36 anni e Christine Elisabeth Steinbacher in Klein, 40 (abitavano rispettivamente a Karlsruhe e a Francoforte) e un uomo berlinese residente a Spandau, Joachim Walter Haase di 61 anni. La donna ferita è una turista di Innsbruck, Christl Pokos, (compirà 59 anni lunedì prossimo). Un cero alla Madonna dovranno accenderlo i tre del gruppo rimasti illesi: le due guide altoatesine, Hans Peter Eisendle, 43 anni, di Vipiteno e Martin Kopfsguter, 33 anni di Villabassa, e il turista bavarese, Dieter Ruckdäschel di 49 anni, che era sulla cresta a una cinquantina di metri da loro. Migliaia di metri cubi di neve si sono staccati dal crinale mettendo a nudo le rocce.

Una scena apocalittica. Il tuono provocato dall'enorme massa è echeggiato nella valle fino al paese di Mazia, un angolo di paradiso ieri illuminato dal sole. La valanga assassina si è mossa per «simpatia» proprio come accade con le cariche esplosive coinvolte in una reazione a catena. A innescare il cataclisma è stata un'altra valanga, di proporzioni mai viste prima in quella zona (il fronte era di almeno un chilometro) staccatasi dal versante opposto del monte. Lo spostamento d'aria prodotto dalla massa nevosa scivolata lungo la china scoscesa ha fatto tremare la terra. E' stato proprio quell'improvviso terremoto esteso all'intera catena montuosa a far scivolare a valle la valanga mortale. I sei turisti divisi in due gruppi di tre, ciascuno agli ordini di una guida, stavano attendendo il segnale di muoversi dai due capi colonna saliti in perlustrazione sulla cima alla ricerca del percorso più sicuro.

Era passato da poco mezzogiorno quando la terra aveva preso a tremare. La nube bianca pochi istanti dopo ha sferzato i volti dei cinque sciatori prima di travolgerli e trascinarli per circa trecento metri. Quando la nube si è dissolta, lasciando filtrare i raggi del sole, la pendice del Piz Portles sembrava fosse stata colpita da un bomardamento. Alla base della ferita aperta dalla neve, anche nei punti dove prima non raggiungeva i dieci centimetri, la coltre bianca superava i quattro metri di altezza.

Tutti gli escursionisti avevano con sé il segnalatore «Pieps» che invia impulsi elettronici intercettabili dalla superficie. I soccorritori (sono intervenute le squadre del soccorso alpino della guardia di finanza di Senales e Certosa, e decine di uomini dell'Alpenverein di Malles e Resia) indirizzati anche dai cani hanno individuato subito i dispersi. Christl Pokos, deve la vita alla tempestività dell'intervento. E' stato un cane pastore a scavare per primo nella neve indicando la presenza di un corpo.

La donna era tre metri sotto la superficie. Sarebbe soffocata se fosse rimasta sepolta ancora per pochi minuti. Respirava anche Joachim Walter Hase quando i soccorritori, richiamati dal «Pieps» erano riusciti a individuarlo a una profondità di due metri. Il turista di Spandau ha lottato contro la morte sino alle 21 di ieri sera nel reparto di terapia intensiva dell'ospedale Santa Chiara di Trento. Le lesioni subite alla testa e al torace non gli hanno dato scampo. Dalla tomba di neve sono stati poi estratti i corpi privi di vita delle altre tre vittime. Il sangue trovato sul luogo della tragedia fa pensare che il decesso possa essere stato causato dall'urto dei corpi contro le rocce. L'autopsia aiuterà a risolvere anche questo terribile enigma.

martedì 22 febbraio 2000

Lieselotte, lo sport come passione

A Bressanone era conosciuta negli ambienti del tennis e dello sci

di Tiziana Campagnoli

BRESSANONE. La notizia della morte di Lieselotte Wenter, 63 anni, moglie dell'ex primario di ginecologia dell'ospedale di Bressanone, Franz, si è diffusa come un soffio in città lasciando i suoi molti amici muti e attoniti. Una donna molto amata, Lieselotte, per la sua simpatia e per la sua carica vitale che pareva travolgere tutti. Lieselotte Wenter era la moglie dell'ex primario Franz Röggla, e da lui aveva avuto quattro figli.

Una vita familiare serena, la loro, turbata improvvisamente circa tre anni fa dalla tragica morte di un figlio, Max, rimasto vittima di un incidente stradale. Un dolore enorme quello provato allora da Lieselotte, come testimoniano alcune persone che la conoscevano bene, che era riuscita in parte a superare amando ancora di più gli altri figli e buttandosi in pieno nelle attività sportive. Già, perchè Lieselotte era anche una donna molto sportiva.

Assidua frequentatrice del Tennisverein di Bressanone, la signora è stata in passato campionessa provinciale di tennis e continuava anche oggi a partecipare a tornei, spesso e volentieri vincendoli. Ma se il tennis era la prima passione, lo sci era lo sport che maggiormente la faceva sentire viva. «Faceva sci da fondo ma anche scialpinismo - ha spiegato addolorato il presidente del Tennisverein di Bressanone, Klaus Schraffl -. Tre giorni fa ci aveva detto che sarebbe andata a fare una bella escursione ed era veramente contenta. Era una donna simpatica e molto sportiva. La sua morte lascia in tutti noi un vuoto profondo e incolmabile». Lieselotte Wenter Röggla lascia il marito e i tre figli, due uomini e una donna, che vivono e lavorano lontani da Bressanone.

martedì 22 febbraio 2000

IL PRECEDENTE/1

Nella valle tre anni fa si sfiorò la tragedia: otto travolti, un ferito

VAL VENOSTA. Un giorno in più, e sarebbero stati tre anni esatti. Era infatti il 22 febbraio 1997 quando un brivido di morte, sotto forma di valanga, percorse la Val di Mazia.

In quell'occasione, però, si trattò appunto solo di un brivido, e il pesante bilancio di morte fu solo sfiorato. Erano le 11.30 quando da quota 3.100 metri della Pleres Spitze si staccò un lastrone di 800 metri di fronte, scivolando a valle per un chilometro e travolgendo otto di dieci anziani sciescursionisti svizzeri. Quattro rimasero sepolti completamente dalla neve, quattro furono investiti marginalmente e due riuscirono ad evitare l'enorme massa nevosa che stava precipitando a valle. Fortuna volle che tutti e dieci fossero muniti di segnalatore Arva, e mentre uno scese al Glieserhof di Mazia a dare l'allarme, i supersiti iniziarono immediatamente le ricerche dei quattro compagni rimasti sepolti sotto la neve.

Da consumati soccorritori, grazie al prezioso supporto del congegno elettronico Arva, portarono a termine le operazioni nel giro di una trentina di minuti, evitando che il bilancio della slavina potesse trasformarsi in una tragedia di enormi proporzioni. Uno solo il ferito e in maniera leggera: Walter Kabler, 65 anni. All'anziano sciescursionista i medici dell'ospedale di Silandro riscontrarono solo qualche escoriazione e qualche contusione oltre ad uno stato di shock. Gli uomini del Soccorso alpino dell'Avs di Malles in quell'occasione raggiunsero rapidamente la zona della slavina, ma a quel punto il loro intervento era praticamente finito: le operazioni di ricerca e di ritrovamento erano state portate a termine dagli stessi escursionisti.

martedì 22 febbraio 2000

IL PRECEDENTE/2

La «morte bianca» era tornata a colpire solo sabato scorso

RACINES. La morte bianca era riapparsa in Alto Adige solo poche ore prima del dramma di ieri: sabato scorso, nella val di Racines. Lungo la salita che porta sulla Punta di Montecroce, il distacco di una valanga aveva investito tre scialpinisti, due bolzanini e un austriaco.

Proprio lo scialpinista austriaco, Harald Mayr, 29 anni, di Schönberg, venne estratto ormai cadavere dalla coltre nevosa, mentre i soccorritori riuscirono a recuperare ancora in vita, ma in gravissime condizioni di ipotermia, il 63enne Anton Prantl, bolzanino ma nato a Merano; praticamente incolume, per essere riuscito a galleggiare sulla superficie della coltre nevosa che lo stava trascinando via, l'altro bolzanino, il 32enne Stephan Stauder.

Il bilancio, però, divenne più pesante poche ore dopo il ritrovamento dei due superstiti: Anton Prantl, ricoverato all'ospedale di Trento, era morto infatti sabato intorno alle ore 21 per lo stato di ipotermia a cui si erano aggiunte complicazioni cardiache. Le condizioni del bolzanino erano subito apparse disperate ai soccorritori che ne avevano individuato il corpo sotto la massa nevosa. Il suo grave stato di ipotermia (la temperatura corporea era scesa a 26 gradi), aveva fatto temere subito il peggio. Ma i medici dell'ospedale di Bressanone, dove il Prantl era stato ricoverato dopo il ritrovamento, avevano tentato il tutto per tutto. E quando la situazione si è fatta disperata non hanno avuto altra possibilità, sabato sera intorno alle 19, che decidere per il trasferimento al reparto di cardiologia di Trento, all'avanguardia in regione. Ma è stato tutto inutile. Anton Prantl è infatti morto subito dopo l'arrivo a Trento.

martedì 22 febbraio 2000

Le due guide alpine non si danno pace

Eisendle e Kopfsguter: «La montagna tremava come in un terremoto»

f.p.

VAL VENOSTA. Le due guide che si sono viste strappare i propri clienti dalla valanga quando sono rientrate all'albergo Glieshof, base di partenza dell'escursione (i turisti erano scesi lì il giorno prima) avevano ancora davanti agli occhi lo scenario di morte che ha sconvolto la loro vita. «E' come se la valanga avesse travolto anche me - racconta Hans Peter Eisendle, una delle guide di sci alpinismo più conosciute dell'Alto Adige -.

In vent'anni di attività è la prima volta che mi succede. Come sempre avevo preparato tutto in sicurezza: percorso, soste, nicchie dove ripararci in caso di eventi imprevedibili». L'altra guida, Martin Kopfsguter, ascolta il suo «maestro» annuendo con il capo. Da buon montanaro anche lui ha l'animo scosso dal tormento di non essere riuscito a proteggere fino in fondo gli sciatori che si erano affidati alla sua esperienza.

La ricostruzione tecnica della sciagura preferisce lasciarla al più esperto collega di sventura. Eisendle non si dà pace perché teme di essere accusato di aver peccato di leggerezza come succede nella maggior parte dei casi agli sci-alpinisti che tagliano la neve preparandosi inconsciamente la bara. «Prima di partire - racconta - mi sono informato sulla situazione climatica. La teperatura era sotto lo zero nonostante il sole e questo garnativa la compattezza del manto nevoso. Ho guidato il gruppo lungo un percorso costellato di rocce e protetto da nicchie. Non siamo saliti di getto.

Conosco benissimo quella zona. Perlustravo ogni tratto prima di invitare gli altri a seguirmi. Abbiamo impiegato circa quattro ore per arrivare sotto la cresta. L'ultimo attacco ci avrebbe tolti da ogni rischio. Chi poteva immaginare che una valanga, staccandosi dalla china opposta, avrebbe fatto tremare tutta la montagna provocando distacchi a catena anche sugli altri versanti? Ci siamo trovati in un ciclone improvviso scatenato da eventi imprevedibili. Forse il vento aveva caricato enormemente la cresta di neve. Ora sono un uomo distrutto. Penso alle vittime, alla morte che le ha rapite in un giorno sereno e che sentivano ricco di emozioni». Nel pomeriggio sul Piz Portles un elicottero ha trasportato una commmissione esperta di valanghe. L'inizio dell'inchiesta.

martedì 22 febbraio 2000

LA STATISTICA

Dal 1976 al '99 sono stati 493 i morti in Italia

BOLZANO. La morte bianca ha colpito anche ieri a Davos, nei Grigioni, dove una valanga è finita su una pista da sci uccidendo tre persone. Le valanghe in Italia hanno lasciato sul campo tra il 1976 ed il 1999 una media di più di 21 morti l'anno, per un totale di 493 morti. La strage è stata più consistente nel 1978 e nel 1991, quando le vittime della neve sono state 38, e nel 1992 e 1993, quando si sono registrati 24 morti, mentre lo scorso anno le vittime sono state 12. I soggetti più a rischio valanghe sono coloro che praticano lo scialpinismo.

Questi dati sul rischio valanghe in Italia sono stati resi noti dall' Arpav-Centro valanghe di Arabba. «L'Italia - spiegano al Centro - è una nazione esposta al rischio catastrofi da neve. La montagna è infatti densamente antropizzata». Il Centro ha anche le statistiche delle categorie più colpite dalle valanghe. Il primo posto, con il 49%, spetta a chi pratica lo scialpinismo, seguito da chi ama lo sci fuori pista (19%), dagli alpinisti (17%), da chi è colpito su strada dalla neve (8%), dagli sciatori in pista (4%), da chi è sorpreso in casa (2%). In tutte le Alpi le vittime delle valanghe sono state negli ultimi 23 anni 2.597, una media di 100 l'anno con punte record nel 1985, quando i morti sono stati addirittura 180. La nazione con più vittime da valanghe dal 1990 al 1999 è la Francia con 290, mentre in Italia nello stesso periodo ci sono stati 156 morti.

martedì 22 febbraio 2000

«Questo incidente è anomalo»

Gli uomini del soccorso molto prudenti nei giudizi

f.p.

VAL VENOSTA. L'anno scorso una valanga aveva seminato la morte in Val di Roja, una località sciistica situata prima di Resia sull'altro versante della Venosta. Tre turisti germanici, due donne e un uomo, scendendo sci ai piedi una parete gonfia di neve avevano tagliato una grossa fetta ed erano stati risucchiati e trascinati in un baratro profondo settecento metri. Lo sci-alpinismo, se praticato senza la dovuta prudenza, diventa più pericoloso dello sci estremo. Manfred Ladurner, dal 1987 appartiene all'Alpenverein di Goldrano.

In tredici anni ha visto più di 20 sciagure. Ladurner è un esperto di escursioni fuori pista e nella disgrazia di Mazia costata quattro vite umane non se la sente di chiamare in causa le due guide alpine. Lui conosce la serietà di Hans Peter Eisendle, un'istituzione nella zona. Forse Ladurner avrebbe reagito diversamente se sul Piz Portles, dove poco prima il suo cane aveva salvato la turista germanica Christl Pokos, avesse individuato i segni di una tragedia provocata dagli stessi escursionisti. «Questo è un incidente anomalo - afferma - anche se non voglio escludere che un certo grado di pericolo ci fosse oggi (leggi ieri ndr) in alta quota. Il vento è subdolo e può provocare distacchi di neve».

Alla luce di così tante tragedie non sarebbe il caso di sconsigliare i turisti a praticare lo sci fuori pista? «No, sarebbe un grave errore generalizzare. Lo sci-alpinismo è uno sport particolare che appassiona chi ama il contatto diretto con la natura piuttosto che quello con gli sciatori che affollano le piste normali». Vale la pena rischiare la vita per "gustare" un paesaggio incontaminato? «Non mi stancherò mai di ripetere che non è la montagna a uccidere, ma l'imprudenza. Chi pratica il fuori pista prima deve informarsi sui luoghi e sulle condizioni meteorologiche. Quando la temperatura sale è meglio restare in albergo ad attendere un bollettino delle valanghe favorevole». Sono i carabinieri di Silandro e Malles a condurre le indagini sulla tragedia. Gli inquirenti cercano una risposta agli interrogativi che tutti si pongono. E' reato o no amare il rischio? Fra le responsabilità di una guida c'è anche l'imprevisto?

martedì 22 febbraio 2000

«Cause? Non l'imperizia»

Parla Zampatti, responsabile del Cnsas

IL PARERE Un grado di rischio è sempre presente

BOLZANO. «Ho ancora delle notizie frammentarie su quanto accaduto, ma se è vero che anche due guide alpine erano presenti nel gruppo travolto dalla valanga, ritengo di poter escludere nella maniera più assoluta che sia stata commessa qualche leggerezza, che insomma alla base di quanto accaduto ci siano state imperizia e improvvisazione». Era questa, ieri pomeriggio, l'unica vera certezza per Lorenzo Zampatti, delegato provinciale del Cnsas, il soccorso alpino nazionale.

Raggiunto fuori Bolzano, attraverso il telefonino, Zampatti era comunque già piuttosto dettagliatamente informato sulla tragedia avvenuta in val di Mazia. «In questa situazione e per quanto ne so - è ancora Zampatti a parlare - il concetto di base non è tanto il grado di pericolo presente nelle zone montane, vista la presenza di guide alpine. Oltretutto, se si tratta delle guide che mi hanno indicato, parliamo di persone preparatissime, che sicuramente hanno preso tutte le precauzioni possibili e individuato l'itinerario sicuro, altrimenti non sarebbero andate in quella zona.

Devono avere fatto un'accurata analisi della situazione, insomma, e anzi mi risulta che sia stato fatto anche un "profilo di neve" e che questo abbia dato esito positivo». E' chiaro comunque che qualcosa è accaduto, magari qualcosa di imprevisto... «Certo - prosegue Zampatti - ma se come sembra si è staccata una valanga sul versante opposto a quello del gruppo e lo spostamento d'aria ha poi causato un'altra valanga (versione che solo più tardi troverà conferma ufficiale, ndr), e cioè quella che ha investito le persone di cui parliamo, allora tutto prende una piega diversa, parliamo davvero di qualcosa di imprevedibile, di fatalità, di un agente esterno incalcolabile».

Il concetto, insomma, può essere visto così: parliamo comunque di un'attività, quella alpinistica, che ha comunque una percentuale di rischio. «Sappiamo tutti - risponde Zampatti - che l'attività alpinistica comporta sempre una parte di rischio, di pericolo, anche prendendo tutte le precauzioni una minima parte rimane. Lo stesso indice di pericolosità delle zone è sempre di carattere generale, non uniforme dappertutto, bisogna poi considerare altre situazioni, l'esposizione al sole, al vento... Ma ripeto, non so ancora con precisione cosa sia accaduto oggi (ieri per chi legge, ndr), e solo quando si avranno tutti i dati, sarà possibile fare una valutazione più dettagliata. Resta il fatto che ci sono dei morti, e questo è comunque un dramma, ma anche se può essere brutto dirlo il rischio in questa attività fa purtroppo parte del gioco, anche avendo preso tutte le precauzioni possibili».

mercoledì 23 febbraio 2000

Morti che pesano sulle coscienze

Sci alpinismo sotto accusa In valle prevale il fatalismo

LA TRAGEDIA DI MAZIA di Francesco Palchetti

VAL VENOSTA. Val di Mazia, il giorno dopo la tragedia. Il fatalismo che contraddistingue le genti di montagna ha preso il posto del dolore. Di fronte ai tristi eventi si cerca di rimuovere in fretta dalla coscienza la gravità dell'accaduto ma i quattro escursionisti uccisi dall'enorme valanga staccatasi dai 3.070 metri di Piz Portles, pesano lo stesso come un macigno sull'immagine della zona.

Le salme della tre donne, Liselotte Wenter in Röggla, 62 anni di Bressanone, Simone Gramalla, 36 anni di Karlsruhe e Christine Elisabeth Steinbacher in Klein, 40, di Francoforte, sono state composte nella cappella mortuaria dell'ospedale di Silandro, nentre il corpo della quarta vittima, il berlinese residente a Spandau, Joachim Walter Haase di 61 anni, è ancora all'ospedale di Trento. Solo dopo l'autopsia le spoglie dei quattro escursionisti verranno restituite alla pietà dei familiari. Intanto sono nettamente migliorate, all'ospedale Franz Tappeiner, le condizioni della turista austriaca di Innsbruck, Christl Pokos, di 59 anni.

La donna è stata trascinata dall'enorme massa nevosa per circa duecento metri prima di finire sepolta sotto una coltre di due metri. Sono state le due guide a individuarla con il «Pieps» (il segnalatore elettronico che invia impulsi indicando il punto esatto in cui si trova il disperso) e quindi a riportarla, in superficie prima che l'ipotermia e il soffocamento l'uccidessero come è toccato ai suoi quattro compagni d'escursione. La Pokos ha subito la frattura di una gamba, traumi estesi su tutto il corpo e sintomi di assideramento, oltreché un fortissimo shock.

Ieri a Silandro dalla Germania e da Bressanone sono giunti i familiari delle vittime. E' stata l'ambasciata della repubblica federale tedesca, informata dai carabinieri attraverso i canali diplomatici, l'altro pomeriggio a dare la terribile notizia ai parenti. Il gruppo di escursionisti era arrivato domenica pomeriggio all'albergo Gieslhof situato in fondo alla Val di Mazia a 1700 metri di quota in una conca incorniciata di monti.

Anche nel fondovalle l'altro giorno era nevicato piuttosto abbondantemente restituendo alla zona l'aspetto natalizio che l'ha resa famosa fra gli sciatori appassionati del fuori pista. Per non perdere neppure un giorno di sole i sei escursionisti avevano affrettato i tempi «prenotando» telefonicamente le due guide alpine già per lunedì mattina. Eisendle e Kopfsguter anche sulla base degli ultimi bollettini-valanghe che davano per quel giorno una gradazione di rischio non preoccupante, si erano decisi a partire. E avevano scelto come meta il Piz Portles da raggiungere attraverso un itinerario scelto meticolosamente a fianco della pietraia in modo da garantire agli escursionisti una solida protezione. Cinque turisti si erano fermati in una piazzola protetta dalle rocce in attesa che le due guide e il sesto escursionista, già arrivati sulla cresta indicassero loro il percorso più sicuro. In quei frangenti si è scatenato il finimondo. Migliaia di metri cubi di neve, su un fronte di mezzo chilometro, hanno aperto un'enorme ferita sul fianco del monte trascinando a valle tutto ciò che era nel raggio d'azione della slavina. I cinque escursionisti non hanno avuto scampo. Lo spostamento d'aria ha sbriciolato le rocce risucchiando le persone finite sepolte sotto metri e metri di neve. Il fronte della valanga si è fermato in un avvallamento, trecento metri sotto la cima. Il bianco scenario della tragedia.

mercoledì 23 febbraio 2000

Prudenza e Arva riducono i rischi

L'esperto Mauro Valt: E' una fase meteorologica particolare

VAL VENOSTA. Il vento è naturale costruttore di valanghe. E' fra le principali cause della cosiddetta «morte bianca». Ad affermarlo sono gli esperti che consigliano prudenza e l'uso di attrezzatura adatta a sciatori, escursionisti ed alpinisti. «Ci troviamo in una fase meteorologica particolare - spiega Mauro Valt, dell'Arpav-Centro Valanghe di Arabba (Belluno) - con fitte nevicate che si sono abbattute sull'arco alpino settentrionale. L'Italia è stata interessata solo nella cresta di confine, che è quindi la zona più a rischio valanghe, soprattutto - aggiunge l'esperto - per il forte vento che arriva da Nord». Mauro Valt osserva ancora: «L'abbinamento della neve fresca col vento determina un'instabilità del manto nevoso nelle zone di accumulo che, se attraversate da sciatori, possono dar luogo a valanghe». La valanga spontanea è un caso molto raro. «Il 95% degli incidenti da valanga sono dovuti proprio ai distacchi provocati da sciatori sotto le zone dove il vento ha depositato la neve. E' quindi consigliabile prudenza agli escursionisti - dice Valt - che dovrebbero muoversi con addosso l'Arva (apparecchio di ricerca travolti valanga), una ricetrasmittente elettronica particolare con un segnale che, in caso si rimanesse sepolti sotto la neve, può essere captato dagli eventuali compagni d'escursione che hanno evitato la valanga e dai gruppi di soccorritori impegnati nelle ricerche».

mercoledì 23 febbraio 2000

Sepolto dalla neve nonostante l'airg bag

Il berlinese morto a Trento era convinto di essere protetto

VAL VENOSTA. Anche ieri, l'attenzione degli inquirenti si è concentrata sulle due guide Hans Peter Eisendle, 43 anni, Vipiteno, e Martin Kopfsguter, 33, Villabassa. A provocare il distacco della valanga assassina è stata una slavina, del fronte di almeno un chilometro, staccatasi dall'altro versante del monte. Lo spostamento d'aria ha fatto tremare la terra scatenando, sul fronte opposto, una reazione a catena culminata con la valanga assassina partita da 3 mila metri di quota, proprio sotto la cresta. I sei turisti divisi in due gruppi di tre, stavano attendendo l'ordine di proseguire dalle due guide salite in perlustrazione sulla cima. Tutti avevano con sé il segnalatore «Pieps», grazie al quale le squadre del soccorso alpino della guardia di finanza di Senales e Certosa, e decine di uomini dell'Alpenverein di Malles e Resia, hanno trovato subito i dispersi. Joachim Walter Hase indossava l'«air bag» (lo speciale sacco che si gonfia se viene pressato) che però non lo ha tenuto «a galla» come, invece, assicura la pubblicità del nuovo marchingegno antivalanghe.

giovedì 24 febbraio 2000

La sopravvissuta ritrova il sorriso Christl Pokos: «Sotto la neve ho visto la fata Morgana»

TRAGEDIA DI MAZIA di Francesco Palchetti

MERANO. Ha ritrovato il sorriso la superstite della valanga. Il fisico temprato dallo sci alpinismo l'ha restituita integra alla vita. Christl Pokos, 60 anni a fine mese, austriaca di Innsbruck, sa di essere una miracolata e lo dice alternando gesti carichi di dolore a sorrisi liberatori. «I miei compagni d'escursione sono morti - racconta Christl Pokos nella sua stanzetta del reparto di terapia intensiva - e a me è toccato lo straordinario privilegio di vivere. Avrei tanto voluto dividerlo con loro. Non è stata imprudenza ma una grande sfortuna.

Tutti e cinque siamo stati travolti dalla valanga nelle stesse condizioni, trascinati a valle e sepolti dalla neve a poca distanza l'uno dall'altro». Devono essere stati momenti terribili... «Eccetto il primo violento impatto con la slavina che mi ha sorpresa in stato di cosciente terrore, dove ognuno cerca di reagire in qualche modo, tutto il resto mi scorre nella mente come un film fantastico. Una storia che mi ricorda la fata Morgana. Un intreccio tra realtà e sogno. Alternavo momenti di lucidità a visioni irreali, un'esperienza agghiacciante passata tra forti emozioni e un senso di grande serenità. Forse quando la morte si avvicina si provano proprio queste sensazioni. L'incoscienza insomma aiuta ad alleviare il dramma estremo del trapasso». C'era qualche suo compagno vicino a lei nella tomba di neve? «Ricordo perfettamente un sacco o un pallone arancione e ho capito che si trattava di un airbag antivalanghe.

In quel momento ho pensato: guarda che fortuna uno di noi si è sicuramente salvato». Le hanno detto poi che l'airbag era di Joachim Walter Haase, l'uomo germanico morto la stessa sera all'ospedale di Trento? «Sì, e per me è stato un motivo in più di dolore». Come ha reagito quando ha visto la montagna di neve venirle addosso? «Mi sono messa a nuotare e per una cinquantina di metri sono riuscita a tenermi a galla, poi è arrivata una seconda gigantesca slavina che ci ha sommersi. A quel punto mi sono coperta la bocca con le mani, volevo crearmi una nicchia per respirare. Poi è diventato tutto buio e sono iniziate le allucinazioni fino a quando ho perso conoscenza.

Fossi morta non avrei sofferto. Se può essere una consolazione almeno auguro ai miei sfortunati amici di aver provato le stesse sensazioni». Quando ha capito di essere salva? «E' stato nell'attimo in cui ho sentito la voce della guida Hans Peter Eisendle che, dopo avermi estratta dalla neve fino al busto, mi ha rianimata raccomandandomi di stare calma perché l'incubo era finito. E' stato lui a salvarmi». Da quanto tempo pratica lo scialpinismo? «Da una vita e ho quasi sessant'anni». Conosceva le vittime o lunedì era alla sua prima uscita con loro? «L'anno scorso con Eisendle avevamo passato una settimana di sci alpinismo in Corsica. Quest'anno abbiamo scelto la valle di Mazia». Tornerà in montagna? «Sicuramente, lo sci alpinismo è una malattia incurabile. Anche mio marito Kurt è un appassionato». Quest'anno, per fortuna, non l'ha seguita. «Kurt doveva lavorare e devo ammettere che è stato meglio così». In passato le era capitato di vedere delle valanghe? «Tante, ma da lontano».

-Ho letto il bollettino valanghe alto adige di lunedi , che riportava pericolo 3, rimarcando però la possibile pericolosità di alcuni siti come creste e altre zone di accumulo (c' era stato forte vento ed erano caduti più di 50 cm di neve fresca negli ultimi giorni) e citando esplicitamente il possibile distacco SPONTANEO di valanghe di grosse dimensioni da questi siti. -Io non mi sono mosso, ma alcuni amici hanno fatto una gita nella zona di Vipiteno domenica, scegliendo accuratamente un itinerario a quota bassa, molto bosco e niente pendii pericolosi, ben consci dei potenziali pericoli. -solo due giorni prima c' era stata una valanga con morti su un itinerario non particolarmente insidioso come la Punta alta di Montecroce (la conosco), segno di una situazione non tranquilla. -Per ammissione delle stesse guide, procedevano con molta prudenza facendo numerose perlustrazioni in avanti per saggiare la tenuta della neve sul percorso, segno che non erano poi così sicuri che non ci fossero potenziali pericoli. Su quella cresta era accumulata una quantità di neve spaventosa. Domanda: possibile che questi professionisti non potessero scegliere un itinerario a quota più bassa, con meno probabilità di andare in zone potenzialmente pericolose, o addirittura consigliare i loro clienti di starsene buoni e di fare un giretto a Glorenza, che non era il caso di muoversi? In fondo siamo in febbraio e non in aprile, fa freddo e l' assestamento della neve è sicuramente molto più lento. In Francia dicono che il killer delle guide è lo scialpinismo, perchè queste non sanno resistere alla tentazione di uscire con i clienti anche quando sarebbe meglio evitare. Che abbiano ragione?

Andrea Gasparotto

Il silenzio a volte esprime molto più di tante cazzate e giudizi idioti, mi riferisco senza mezzi termini ai vari mass-media (valanghe killer, montagna assassina, tragiche fatalità, e chi + ne ha + ne metta), ma non ho nessuna intenzione d'innescare una polemica nei confronti dei giornalisti (non tutti in assoluto, ma la maggior parte) dei quali ho una pessima (non trovo aggettivi peggiori) opinione ... Le valanghe sono un fenomeno naturale e probabilmente hanno cominciato a staccarsi prima della comparsa dell'uomo, se quest'ultimo si trova sul loro cammino, o peggio ne aiuta il distacco, non è certo colpa loro ... questo x farvi capire da che parte stò ! Nel weekend ero nella zona del fattaccio (val Racines), non sono sicuramente il tipo che si fa' intimorire da un numero un po' alto sul bollettino valanghe, almeno è segno che di neve ce n'è, preferisco sempre verificare di persona le condizioni ambientali e vi assicuro che quel giorno non serviva essere delle guide x capire che salire sul MonteCroce era un bel suicidio organizzato ... Fatto stà che un po' di tempo dopo aver visto quel gruppetto di tedeschi avviarsi in quella direzione ho sentito il solito sinistro rumore ... il resto puttroppo è cronaca ... Da parte mia ho passato un'intera giornata sulle tranquille cimette della zona sciando in un mezzo metro di neve fantastica sotto un'altrettanto bella nevicata ... Quanto al discorso guide, ho parecchi amici che fanno quel lavoro, x la maggior parte ne ho una gran stima, HansPeter Eisendle compreso il cui valore non stò a discutere ... La maggior parte delle guide non naviga nell'oro e quando c'è la possibilità di lavorare non se la fa' certo scappare, anche xchè altrimenti lo farebbe un'altra con meno scrupoli, e qualche volta rischia ... ma a volte va' male ... Un ultima chicca che mi ha fatto venir la pelle d'oca ...odo spesso in gruppi ultra attrezzati e organizzati dire: 'Hai l'ARVA ? Ok, allora proviamo ...'

Michele Fait

E' difficile capire dove comincia la fatalita' e dove finisce l'imprudenza. Difficile capire cosa ti passa per la testa quando sei li' e devi prendere la decisione di continuare o tornare indietro. La letteratura di montagna e' piena di questi momenti, che si ripetono in piccolo - ma non necessariamente meno tragicamente - anche nelle gite di noi domenicali. Sono giuste le osservazioni di Michele, tante volte la guida e' "costretta a rischiare", fa parte delle regole del suo gioco. Se non ti e' mai capitato di finire dentro una valanga e' difficile evitare il ragionamento-trappola: a me non succedera' mai, perche' dovrebbe cadere proprio adesso, finora mi e' sempre andata bene. Quella della guida e' una posizione doppiamente difficile: nel bene e nel male la responsabilita' e' sua. La gente che va a fare scialpinismo con la guida ci va soprattutto per liberarsi da questo fastidio di dover decidere. E lui decide, e come l'arbitro, qualsiasi cosa decida ci sara' sempre qualcuno che gli dice che doveva decidere in un altro modo. Ho conosciuto guide che si rifiutano categoricamente di fare scialpinismo, in modo particolare con i clienti. Troppi amici morti sotto slavine, testuali parole. La cosa mi ha fatto un po' rabbrividire, all'epoca. Poi ha prevalso l'amore per quest'attivita' dal fascino irresistibile. Con la presunzione di essere persone prudenti, di quelli che sanno quando rinunciare. Gia'. Mi ricorda un po' l'ultima sigaretta di Zeno Cosini e i tabagisti che "io smetto quando voglio". Quanto siamo bravi a raccontarci palle ! Noi domenica scorsa siamo stati credo nell'unico posto dell'arco alpino in cui infuriava una specie di tormenta di neve, vento a cento all'ora, visibilita' zero, almeno mezzo metro di neve nuova con accumuli dappertutto. Scartata la soluzione first-best (che era piuttosto pericolosa) si sceglie la soluzione second-best (una gita abbastanza nota, il Romatenspitze, tranquilla fino ai pendii finali, gia' fatta varie volte). Il tempo e' quello che e', ma ormai siamo qui e abbiamo fatto due ore e mezza di macchina per arrivarci. Abbiamo sbagliato scelta, e' chiaro, ma non abbiamo nessuna voglia di rientrare a mani vuote, ci mancherebbe, quindi si parte. Io mi ricordavo il tracciato praticamente a memoria (e infatti non abbiamo avuto difficolta' a trovare la strada anche se non si vedeva a due metri, anche se il vento ti buttava quasi a terra, anche se la neve ti entrava perfino dentro le mutande). Com'e', come non e', dopo neanche mezz'ora, in un temporaneo attenuarsi degli elementi alzo gli occhi e scopro che siamo finiti sotto una cornice sporgente un metro, accumulata dal vento su qualche ruga del pendio che stiamo costeggiando. Ci siamo passati sotto quatti quatti, uno alla volta. Ci e' andata bene. Pero', mi dico. In tante volte che ho fatto questa gita, anche dopo nevicate recenti, mai visto un accumulo del genere. Che si fa, si scende ? Ma no, non siamo partiti neanche da mezz'ora, teniamo duro, piu' su ci sono delle baracche per ripararsi. Magari il vento cala un po'. Detto e fatto. In alto ci siamo fermati in una baracca ad aspettare, la bufera non smette anzi se possibile il vento aumenta, dopo un po' stiamo per levare le pelli e scendere, in quella arriva un indigeno da solo che ci dice ma no, dai, venite su con me ancora un pezzo, qui e' tranquillo, io sono del paese qui sotto, questa gita e' tranquilla, in caso, se proprio proprio, rinunciamo alla parte alta, la meteo da' miglioramento in giornata. E via che parte. Io gia' per conto mio sono uno che mi secca da morire tornare indietro, se uno ti dice cosi' cosa fai ? lo segui, e' chiaro, e poi in effetti io ero dell'idea di andare avanti anche prima, ma non volevo dirlo perche' ero comunque in minoranza (tre contro uno) e non volevo avvalorare la fama di testardo che mi hanno forse giustamente affibbiato, e poi in effetti non era una gran rinuncia date le condizioni proibitive ... ma insomma, all'invito non ci si tira indietro e si va. Che bella scusa, la meteo! Lo capirebbe anche un deficiente che in quelle condizioni non c'e' miglioramento che tenga, e' la voglia di andare avanti che in fondo ti fa decidere. Si fa sempre cosi', non e' vero? l'evidenza empirica si considera solo quando e' a favore della tesi, quella contraria si elimina, i casi dubbi si citano ma si interpretano generosamente. Quod erat demonstrandum. Ma in effetti, anche nei miei ricordi la gita e' tranquilla. Non vorremo mica fare la figura degli italiani cacasotto. Lui va come un treno, anche se batte traccia, e ci stacca un po'. Il vento e' tale che anche a poca distanza non ci si parla. Noi si segue: se va avanti lui che e' stato su questa cima 20 volte, noi ci si fida. Un traverso che non e' proprio il massimo, alla base di un pendio che in alto si raddrizza. Ma finisce presto, piu' su siamo ancora in una bella conca quasi pianeggiante. Un passo dopo l'altro, in silenzio, sferzati dal vento, senza vedere a un metro. Parte della mia ciurma comincia a protestare, ma gia' gli altri due sono un po' avanti, non se ne parla di scendere se non tutti assieme, cerco di spiegare alla riottosa consorte. Chiamo quelli avanti, sono li' a vista, poche decine di metri da noi, ma non sentono niente. A stento mi riesco a sentire io. Si fermassero un minuto, accidenti. Niente da fare, e dunque ancora su. Ecco che i pendii si fanno piu' ripidi, ormai siamo quasi in cima, siamo a meta' del pendio finale, quello che temevamo, e che abbiamo raggiunto senza quasi accorgerci. C'e' una quantita' di neve incredibile, si affonda fino alle ginocchia. Decido che le cose stanno iniziando a farsi serie, ma non lo dico. L'indigeno rallenta un po' e lo prendiamo. Ehi senti, ma non e' che sara' un po' pericoloso, gli dico ? Lui mi guarda, poi guarda in su, poi torna a guardare me: in effetti anche io ero perplesso, mi dice, ma siccome voi non dicevate niente ... e poi siamo quasi arrivati, mancheranno si' e no 50 metri di dislivello ... pero' effettivamente, guarda la' quanta neve ! Ci guardiamo. Non diciamo niente. Togliamo le pelli in pochi secondi e scendiamo uno alla volta, col cuore in gola. La neve e' cosi' tanta che anche se il pendio e' piuttosto ripido non si riesce a fare nemmeno una curva. Per un attimo c'e' una schiarita: la cima era proprio vicina, ma con una quantita' di neve accumulata sulla cresta che fa paura solo a vederla. In pochi minuti siamo fuori da qualsiasi pericolo. In effetti non e' successo niente. Siamo stati esagerati ? Si poteva continuare ? Siamo stati prudenti a scendere ? Siamo stati imprudenti ad arrivare comunque fin li' ? E soprattutto, cosa ci avra' insegnato questa esperienza per la prossima volta: che avremmo potuto continuare tanto non sarebbe successo niente ? che era meglio non partire e andare direttamente a Warmbad (piscina termale con sauna, per chi non la conoscesse) ? Che siamo stati bravi ad arrivare fin li' in quelle condizioni ma siamo stati saggi a scendere (e che quindi saremo saggi sicuramente anche la prossima volta ?). Chi puo' dirlo ? Per adesso siamo qui a raccontarlo, e non nascondo quanto la cosa mi faccia piacere.

Antonio Massarutto

Antonio (mi è piaciuto il tuo resoconto) ed Enea mettono l' accento sul fatto che a tutti gli scialpinisti prima o poi capita di fare errori di valutazione, da cui, se va bene e se se ne rendono conto, potranno trarre utili insegnamenti, se va male non ne avranno più l' occasione. Sono d' accordo, ma una delle cose che ho imparato abbastanza presto e che poi mi sono dato come regola, è di non fidarmi mai della valutazione di un altro, almeno se questa è più ottimistica della mia: se ritengo che ci sia pericolo, io torno indietro anche se sono l' unico della comitiva a farlo, non ho paura di fare brutta figura. Semmai mi adeguo alle valutazioni più pessimistiche, e rinuncio in caso di dubbio se qualcuno sostiene che è pericoloso, perderai qualche cima ma ti garantisci la pelle. Michele e Maurizio sostengono che le guide sono preparate e spesso agiscono in un certo modo perchè costrette dal bisogno di lavorare. Ma allora è vero che non ci si può fidare di andare con la guida, almeno per quanto riguarda lo scialpinismo!! Quando accadono le disgrazie a gruppi non guidati, la cosa che senti sempre dall' esperto di turno intervistato alla tv è che bisogna affidarsi alle guide perchè ti garantiscono la sicurezza, quando invece sono coinvolte le guide si parla sempre di fatalità, e la cosa mi puzza un po' (ho sentito parlare di fatalità dal capo delle guide della Val D'Aosta anche per la morte del povero Marciandi con il surf sotto la punta Helbronner in una situazione estremamente rischiosa, se non ci fosse stato da piangere mi mettevo a ridere). Quand' è che cominceremo ad ammettere che anche i bravi e i professionisti fanno delle cazzate giganti? Marco fa il parallelo corda-Arva; secondo me è abbastanza azzeccato se pensi alle vie di montagna con chiodatura normale. Lì la corda ce l' hai, ma sai bene che non devi cadere perchè il rischio che gli ancoraggi non tengano è grande. L' arva secondo me va utilizzato, ma poi devi sempre comportarti come se non ce l' avessi. Purtroppo la fregatura dello scialpinismo è che spesso la sensazione di pericolo non è così palpabile come quella che hai quando sei appeso a una parete..... A margine di tutto, avete letto che uno dei tedeschi morti in Val Mazia aveva l' Airbag da neve, che pare non sia servito assolutamente a niente

Andrea Gasparotto

Se le cose fossero cosi' chiare dall'inizio, nessuno sarebbe cosi' stupido da rischiare la pelle. Quasi sempre si tratta invece di valutare una situazione di potenziale pericolo, 99 volte su 100 ti va dritta, la centesima no. Quello che diceva Michele era corretto. Non credere che "pericolo 3" significhi che dovunque debbano cascare inesorabilmente valanghe. E' un giudizio sommario, che descrive una tendenza generale, e che deve essere poi riscontrata sul posto. Se il bollettino da' pericolo 3 cerco di scegliere una gita al riparo da pericoli, ma poi questo pericolo e' sempre relativo Anche sulle sigarette che tu fumi in gran quantita' c'e' scritto "Nuoce gravemente alla salute", tua e di chi ti sta intorno. Purtroppo (o per fortuna) non e' che appena uno accende una sigaretta gli altri intorno iniziano a morire fulminati. Certo, il professionista ha la responsabilita', dovrebbe essere piu' prudente della media. Quante volte abbiao fatto escursioni organizzate con il CAI e siamo scesi perche' chi guidava il gruppo non se la sentiva di assumersi un rischio anche per gli altri. Magari da solo ci sarebbe andato. Ma anche il professionista e' un uomo, non un santo protettore e nemmeno un'assicurazione sulla vita. La guida fa il suo mestiere, ci si immagina che conosca la montagna meglio della media degli altri essere umani ma non e' infallibile, e sarebbe bene che tutti se lo mettessero in testa, guide comprese. Io nel mio piccolo preferisco fare da solo cose che so dominare, piuttosto che forzarmi la mano e affidarmi a un "esperto" per fare cose che da solo non saprei fare. Almeno so che se muoio e' stata colpa mia, almeno la valutazione di quello che sta succedendo intorno a me la faccio io e non qualcun altro, sia pure esperto professionista. Noi dobbiamo accettare che stiamo facendo delle attivita' rischiose, con o senza guida, e questa utopia di annullare il pericolo con i talismani (l'ARVA) o delegandolo ad altri, o esorcizzandolo in altre maniere, non e' molto utile. Sembra quasi che nel nostro mondo vogliamo cancellare l'idea stessa di pericolo, di aleatorieta'. Ogni volta che succede qualcosa, tutti a caccia del "responsabile": siamo cosi' intrisi di razionalismo che non tolleriamo non ci possa essere una causa, una colpa per qualunque cosa di male ci accada. La guida, l'ARVA, le precauzioni aiutano a ridurre il pericolo, a circoscriverlo, a conoscerlo meglio, a darsi qualche chance in piu' di cavarsela se capita un imprevisto. Ma non servono a eliminare i pericoli. Non so se in val Mazia le guide abbiano agito con leggerezza. Puo' darsi. Puo' darsi anche che siano partiti convinti di andare a fare una gita tranquilla, e che abbiano trovato condizioni impreviste, ma a quel punto abbiano deciso di provare ugualmente. La guida di Rudolf Weiss, professore di scialpinismo all'Universita' di Innsbruck, la descrive come una gita relativamente tranquilla. Nel raccontino che ho fatto nel messaggi oprecedente ho cercato di mostrare che non sempre le cose ti sono cosi' chiare al momento in cui prendi la decisione, non sempre la situazione si puo' interpretare con tanta sicurezza. Tante volte sono coincidenze fortuite che cospirano contro di te. L'estate scorsa ho rischiato di brutto, vuoi che ti racconti cosa mi e' successo ? Siamo partiti per andare ad arrampicare (io che non ci vado mai). Arriviamo al Monte Croce Carnico, folla di gente. Allora andiamo in una falesia piu' appartata, ci vuole un'ora a piedi per arrivare, li' i climber sicuramente non li troviamo. E invece c'era addirittura un corso roccia del CAI, con una ventina di persone che aspettavano. Non chiedevo di meglio che di andare a camminare, in fondo: ottima scusa per dimostrare alla consorte che l'arrampicata e' uno sport per mentecatti. Si lascia lo zaino pieno di corde e ammennicoli e si va a fare un giretto nei paraggi. C'e' ancora un po' di neve. Saliamo su un cimotto li' sopra, che si chiama Cresta Verde (i locali capiranno). Io decido di andare sulla cima vicina, che si chiama Creta di Collinetta, dove non sono mai stato. Gli altri non hanno voglia, e poi ci sono gli zaini da recuperare. Loro scendono, io vado da solo: appuntamento alla macchina. In cima trovo due austriaci che sono saliti dall'altra parte, dove so che c'e' una ferrata. Chiedo com'era, mi dicono buona. Niente neve. Io sono senza niente, ma gia' che ci sono mi dico perche' no ? E imbocco la ferrata. MMM, le amate Carniche ! Roccia marcia, zolle instabili, cavo ruggine, un ancoraggio piantato alla meglio e tre divelti. Coragio, scendiamo. La prima della stagione e' sempre un po' cosi'. Scendo, scendo, ormai e' tardi. Pero', lunghetta. Ormai dovrei essere quasi arrivato. Una trentina di metri di cavo, poi si dovrebbe arrivare nel fondo del canale. Ed ecco la sorpresa: il fondo del canale e' di neve durissima, non c'e' niente altro da fare: si scende di li', saranno 50°, i cavi della ferrata sono sotto. Io sono in scarpini e senza piccozza. Tornare su ? Fra un paio d'ore sara' buio, quelli sotto staranno in pensiero. Sono solo pochi metri. Sono partito. All'inizio benino, dita piantate nella neve e grandi calci per scavare un'idea di tacca nella neve durissima. La prima lingua si lascia attraversare, la seconda la scendo a cavalcioni con una gamba incastrata nel piccolo crepaccio terminale. La terza e' la piu' ripida e la piu' dura, si vedono i cavi una ventina di metri sotto che riappaiono, fine delle difficolta'. E c'e' un terrazzino di ghiaia, che potrebbe arrestare l'eventuale scivolata. Proviamo a scendere: faccia al pendio, mani ormai insensibili per il gelo. Un passo, due. Sembra che vada. Un attimo solo, e senza neanche aver finito di pensarlo, senza neanche essermi accorto di essere scivolato mi ritrovo che sto cadendo, praticamente senza attrito, sto quasi precipitando. Riesco a girarmi non so come. Atterro sul terrazzino di ghiaia: qualche sbucciatura, una botta sulla coscia, ma sono intero. Sto fermo almeno un quarto d'ora come un resuscitato. Mi rialzo: sono intero. Riprende il sentiero attrezzato, poco piu' in basso finiscono le difficolta'. Col sentiero arrivo al passo, gli altri si stavano preoccupando, ormai e' quasi buio. Non gli dico niente. E penso: ma guarda te che sfiga. Io che in vita mia ho sempre evitato le cose rischiose. Io che prima di andare in un posto mi leggo settantamila relazioni. Io che se anche ipotizzo lontanamente la presenza di neve mi porto dietro piccozza e ramponi che non si sa mai. Dove e' cominciato l'errore? I due austriaci avevano detto il vero: sulla ferrata non c'era neve. Peccato che parlavano di un'altra ferrata, appena costruita, che non era neanche segnata sulla carta. Quella per cui sono sceso io era un'altra, semiabbandonata, con ancora i cavi dei tempi della guerra. Marco, si puo' commettere degli errori madornali anche senza commettere errori. La somma di 10 decisioni tutte giuste puo' finire per essere una decisione sbagliata. Meglio accettarlo serenamente.

Antonio Massarutto