Quante volte un minuscolo evento casuale può cambiare il corso della nostra vita? Come la pallina da tennis che prende il nastro può ricadere indifferentemente al di qua o al di là della rete, determinando l’esito della partita, così un minuto, un centimetro, una parola, a volte sono la differenza tra riuscire o fallire,vincere o perdere, vivere o morire.
Certo, il blocco di neve che si stacca proprio quel giorno, proprio in quel momento, proprio in quel punto, non lo posso considerare un evento fortunato. Sarebbe bastato un altro minuto, forse mezzo, e sarei stato oltre. Se solo non mi fossi attardato a sistemami la linguetta dello scarpone, o avessi adottato un’andatura un po’ meno turistica. E d’altro canto se sono qui a scrivere, anche se un po’ acciaccato, è solo per un insieme di circostanze talmente fortunate da far pendere il bilancio della giornata decisamente a mio favore.
Innanzitutto il mio compagno più vicino, pochi metri avanti a me, per
fortuna (sua e mia) viene coinvolto solo marginalmente ed ha, evidentemente,
l’autosoccorso nel sangue. L’istante in cui mi sento toccare la
gamba destra è per me il segno che la pallina da tennis è finita
dall’altra parte.
Prima non avrei scommesso un euro sulla mia sopravvivenza.
E poi il fatto di essere l’unico travolto di un gruppo numeroso, esperto ed attrezzato che può dedicare, e le dedica, tutte le sue energie al mio disseppelimento. Fossimo finiti sotto in tanti, o fossimo stati in pochi, chi può dire come sarebbe andata.
Forse anche la polizza sulla vita sottoscritta poche settimane prima. Avevo insistito perchè fosse rimossa una clausola relativa al caso di morte per congelamento. Metti che finisco sotto una valanga, avevo scherzato con l’assicuratore. Chissà che faccia avrebbe fatto!
Ma bando alle ciance, non voglio dilungarmi sulla cronaca, tutto sommato scontata. L’evento valanga, pur con tutta la sua drammaticità, non è descrivibile a parole senza cadere nel banale. Vorrei solo mettere nero su bianco le risposte ad alcune domande che, per il semplice fatto che mi sono state rivolte da più persone, ritengo di possibile interesse comune.
Se ho provato a scappare, per esempio. Certo, appena ho visto il distacco, che pure all’inizio sembrava cosa da poco, ho cominciato a risalire il versante opposto con tutta la lena possibile. Ma è questione di secondi, non è che di strada se ne può fare tanta. Magari in fase di discesa ci si può mettere a uovo e tentare una libera alla Hermann Mayer, ma in salita, con le pelli ai piedi, il raggio d’azione è veramente risibile.
Se ho provato a nuotare, come suggeriscono di fare. No, non ci ho provato.
O meglio, non sono neanche riuscito a pensare di ipotizzare di tentare di provarci.
L’onda d’urto che precede la massa valanghiva non ha nulla a che
vedere con il vento, neanche con la Bora a centodieci che pure ho provato a
Trieste, anni fa, e che mi faceva barcollare, è vero, ma non mi sollevava
mica da terra! Dopo lo schiaffo dello spostamento d’aria, con relativo
atterraggio scomposto, è difficile fare qualunque cosa. E poi la valanga,
la mia valanga almeno (di altre non ho esperienza), non ha niente a che vedere
con l’acqua.
E’ come trovarsi all’interno di una gigantesca betoniera: lo stile
libero riesce malissimo. La massa ti avvolge, ti impasta, ti disarticola. Già
mantenere una congruenza morfologica è un’impresa impossibile,
coordinare dei movimenti è pura teoria. Forse varrebbe la pena togliersi
gli sci e rannicchiarsi per cercare di salvare gli arti, ma non è detto
che così non si finisca più sotto. Comunque, pensare di riuscire
a dominare in qualche modo la situazione è per lo meno illusorio.
Se ho provato a crearmi uno spazio, una nicchia, una bolla d’aria per
poter respirare. Sì, ci ho provato. No, non ci sono riuscito.
Per un attimo ho creduto di avercela fatta.
Quando mi sono fermato ce l’avevo. Poi è arrivato il resto della
neve con il suo dolce peso da ippopotamo. Non solo si è ripresa tutti
gli spazi disponibili: si è anche piazzata sul mio sterno rendendomi
la respirazione complicata a prescindere dall’aria disponibile.
Se si ha cognizione del sopra e del sotto. No, per niente. Non avrei mai detto di essere praticamente a testa in giù. Dicono di usare la saliva per orizzontarsi, ma questo ha senso solo se hai a disposizione dello spazio per fare qualcosa. Quando sei imbalsamato in un pilone di cemento non è che ti serva molto sapere dove sta il sopra.
Se c’è luce. Sì, almeno, giurerei di sì. Non che ci sia molto da vedere, ma la mia impressione è quella che i cristalli di neve davanti ai miei occhi fossero visibili.
Se si sentono i suoni. Sì, benissimo anche. Anche da un metro e mezzo
sotto sentivo tutto quello che si diceva fuori. Non viceversa, nel senso che
fuori non sentivano niente di quello che urlavo io.
Strano effetto monodirezionale della propagazione del suono.
Se fa freddo. Probabilmente sì, ma almeno nei primi minuti è l’ultimo dei problemi. Poi sì, un freddo becco, ma per fortuna ero giá fuori.
Se mi è passata davanti tutta la vita. No, francamente no. L’impressione
è quella di non avere pensato quasi niente. Per un po’, forse un
minuto, ho creduto di essere spacciato, ma non c’è stato molto
oltre questa lungimirante osservazione.
L’immagine confusa di mia moglie che spiega ai bambini il perchè
e il per come il papà non tornerà più, con l’assurdo
sollievo di non essere io a doverlo fare. Un inizio di rassegnazione forse.
Poi il tocco magico sullo scarpone e la certezza immediata che ce l’avrei
fatta. Da lì tutti gli sforzi si sono concentrati sullo stare calmo,
sul respirare piano, sul consumare il meno possibile, sullo stare vivo. Per
la proiezione completa della mia vita non c’è stato proprio tempo.
Se, infine, tornerò in montagna dopo questa singolare esperienza. E’
la domanda più difficile. Sono talmente lontano dalle condizioni fisiche
minime anche solo per salire sul monte San Primo che non provo nessuna pulsione,
nè di ritorno nè di ritiro.
Cosa mi verrà voglia di fare, quando potrò farlo, non riesco a
immaginarlo. Mi si fa notare che si è trattato di un evento non provocato,
del tutto casuale, una vera sfiga come si suol dire, e che non posso rimproverarmi
nessuna negligenza, nessun azzardo. Cosa vera in gran parte. Certo, se avessi
scelto di uscire dal traccione e di passare più sulla sinistra…
beh, avrei vinto il premio Nobel della premonizione, ed è solo uno scrupolo
di coscienza che, di fronte al danno, mi porta ad interrogarmi sulle scelte
improbabili che avrebbero potuto evitarlo. Tuttavia, forse proprio questa valutazione
di ineluttabilità mi disturba. Fosse successo mentre, come tante volte,
mi assumevo un rischio più o meno calcolato, potrei sempre pensare che,
con una condotta più prudente, sarei in grado di aumentare a mio piacere
il livello di sicurezza. Se fai una cazzata, dice il saggio, puoi sempre riprometterti
di non cascarci più. Invece mi trovo, come unica consolazione, quella
di pensare che una sfiga del genere non può capitarmi due volte, cosa
del tutto falsa, come il calcolo delle probabilità insegna.
Questo per quanto riguarda i motivi per non tornarci. La paura. Poi ci sono
i motivi per tornarci. Il divertimento. Fino ad oggi ho sempre vissuto la montagna
con serietà ma anche con spensieratezza. Un grande, immane, incommensurabile
divertimento.
Riuscirei a divertirmi come prima sapendo che a casa c’è una famiglia
che conta i minuti alla fatidica telefonata, ok, tutto bene, siamo alla macchina?
Fino ad oggi la mia attività montanara è stata, per la mia famiglia,
un mero problema di assenza.
Ora potrebbe diventare un grosso motivo di stress. Insomma, dobbiamo guarire
in quattro da questa faccenda.
In conclusione, l’epilogo.
Come recitano i sacri testi, la probabilità di sopravvivere sotto una
valanga è più del novanta per cento nei primi cinque minuti.
Mai tempo fu calcolato con più giudizio.
Quando vedo un guanto che spazzola gli ultimi strati di neve davanti alla mia
faccia sono passati esattamenti cinque minuti, e la mia impressione è
che non avrei retto il sesto.
Forse solo una sensazione, nessuno potrà mai dirlo. L’immensa goduria
di respirare è solo parzialmente mitigata da un dito che mi viene prontamente
infilato in bocca alla ricerca di corpi estranei, come da procedura.
Pare che la mia prima richiesta sia stata quella di levarsi dai testicoli,
non in senso figurato ma strettamente fisico. D’altro canto non dev’essere
facile capire come sono posizionato, mezzo Heather Parisi e mezzo Misery Non
Deve Morire. A partire dalle angolazioni improbabili degli arti inferiori i
miei testicoli potrebbero trovarsi dovunque, dunque è ragionevole che
qualcuno, nell’ansia totalmente condivisibile di salvarmi la pellaccia,
ci si sia piazzato sopra. Vedo facce di compagni che credevo molto più
indietro. Avranno preso uno skilift, viceversa non mi spiego come possano essere
già qui.
Il resto è un walzer di scavi archeologici, teli termici, elicotteristi
acrobatici, medici sans frontier, barelle, ambulanze, freddo, felicità,
dolore fisico come non mai. Mi concentro sulla linda stanza d’ospedale
dove, prima o poi, dovrei approdare per un meritato riposo sotto cospicua dose
di antidolorifici. Un miraggio per il quale ci vogliono circa quattro ore, in
gran parte spese per tirarmi su la temperatura da trentuno ai trentasei e mezzo
regolamentari. Quando alla fine mi sparano nel calcagno il ferro per la trazione
mi avvisano che mi farà un po’ male, ma a me sembra poco più
di una puntura di insetto. Ormai ho la soglia del dolore tra Rambo e l’Uomo
Chiamato Cavallo.
Finalmente, verso le quattro, il sogno si avvera: sono in una linda stanza di ospedale con una pera di allucinogeni da 500cc appesa alla gruccia della flebo e non sento alcun dolore. E’ il 25 Aprile, giorno della Liberazione. Da quest`anno, per me, non solo dai Nazisti.
Roberto Cotti (Rolly)
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“È successo davvero, non è la solita esercitazione”, questo il primo pensiero che elaboro quando il flusso di neve si ferma e mi rendo conto che non mi può più raggiungere. Ho visto due dei nostri catturati dall’onda di piena della valanga, cento metri più avanti. Lo scenario non rientra nei canoni ai quali siamo preparati. Non è un distacco provocato, un lastrone con un fronte più o meno ampio. Piuttosto una maxi-valanga spontanea, di quelle che si vedono nei filmati e non si commentano nemmeno perché se ti prende una cosa del genere…
Ci troviamo a centro metri di dislivello dal rifugio Bezzi in Valgrisenche, nell’ultimo tratto della valle che conduce al rifugio, dove è più stretta. È mezzogiorno, siamo lì con il corso regionale lombardo di scialpinismo e il corso di snowboard alpinismo di cui sono il direttore. Il tempo è bello, non troppo caldo. Sono tre giorni che si è sistemato, dopo le nevicate della settimana precedente. Il bollettino segnala un rischio 3 marcato, in diminuzione. La valanga si stacca almeno 400 metri (di dislivello) alla nostra destra, dalle pendici della Becca di Suessa esposte a est. Sembra un modesto scaricamento, distante. Alcuni di noi lo fotografano perfino, ma la neve non si ferma, saltando da una balza rocciosa all’altra acquista massa e impeto.
Quando la valanga entra nella valle è come un fiume in piena; risale
sul versante opposto, dove passa la traccia di salita.
Neve pressata, a blocchi, pesante come cemento.
In mezzo alla valletta, nel posto sbagliato momento sbagliato, si trovano Roberto
e Alessandro. Alcuni di noi sono più avanti e più in alto, altri
dietro nel piano dove la valanga si arresta.
Non abbiamo parlato, non abbiamo nominato un direttore della ricerca, assegnato incarichi. È scattata una reazione automatica, più che un autosoccorso da manuale. Del resto sarebbe stato una perdita di tempo ed eravamo troppo pochi e sparpagliati per agire diversamente. Siamo semplicemente corsi lì, chi dall’alto, chi dal basso, chi gli sci chi senza. Quando sono arrivato io, Roberto era stato già localizzato.
A trovar è stato Alessandro che, sfiorato dalla valanga, ha avuto la
prontezza e la bravura di dedicarsi subito alla ricerca del compagno. Uno scarpone
affiorante dalla neve ha significato molto. Per Roberto che da sotto ha sentito
che l’avevano raggiunto e anche per noi che lo cercavamo con il cuore
in gola.
Alternandoci nello scavo, in quattro minuti abbiamo raggiunto la sua testa.
Non è stato immediato capire in che posizione si trovasse e come fare
per arrivare alla bocca. Quando gli abbiamo liberato la faccia e l’ho
sentito dire “Mi state sui coglioni!” non ho pensato che avesse
un brutto carattere. Ma che era vivo e noi gli stavamo schiacciando delle parti
delicate.
Poi ce la siamo presa con più calma.
Abbiamo liberato il resto del corpo e le gambe. Una evidentemente spezzata all’altezza
della tibia, l’altra dolorante.
L’abbiamo mosso pochissimo, isolato dalla neve e coperto. Roberto rispondeva
alle nostre domande, ci rassicurava sulle sue condizioni. Nel frattempo abbiamo
fatto una verifica su tutta l’area della valanga per eventuali altri dispersi,
magari appartenenti ad altri gruppi. Altri 15 minuti ed è arrivato un
bellissimo elicottero. C’era un cavo sospeso vicino a noi e temevo complicasse
le operazioni.
Senza fare un piega, il pilota è atterrato sulla valanga a dieci metri
dal ferito.
Caricato sulla barella il nostro amico ha preso il volo verso l’ospedale
di Aosta, dove giovani e sapienti infermiere si sono prese cura di lui. Su quest’ultimo
particolare non ci giurerei, essendo Roberto sotto morfina.
Questa la cronaca di quella mattina del 25 aprile 2008.
Quale lezione o insegnamento si può ricavare da questa vicenda?
Dirò qualcosa di già sentito: in montagna si rischia sempre qualcosa.
Questo rischio a volte non lo vediamo o forse richiede uno sguardo più
acuto del solito. Ma esiste. A volte gli diamo un nome diverso: destino, caso,
fatalità. Si tratta comunque di qualcosa che non potevamo o sapevamo
riconoscere.
Non avrei mai immaginato che potesse colpirci una valanga di quelle dimensioni
in quel punto. Stavamo salendo divisi in gruppi, ogni istruttore con due o tre
allievi, in un clima rilassato senza particolari patemi. Lungo la traccia c’era
qualche piccolo valanga a pera, di quelle provocate dal caldo. Eravamo distanziati,
ma più per ragioni didattiche che di sicurezza. La traccia che sale al
rifugio era già segnata e percorsa da decine di persone.
Sarebbe consolante pensare che sia stato un evento “sfortuito” ed eccezionale. Ma non ci credo completamente. Una guida ci ha detto che l’anno scorso lì è morto un suo collega. Nelle ore successive su quella tranquilla traccia di salita si sono scaricate altre valanghe da entrambi i versanti, anche se meno mastodontiche.
Significa che quella valle, in certe condizioni, anche dopo tre giorni di bel
tempo può essere una trappola. Siccome il rifugio Bezzi è una
meta molto frequentata e accoglie oltre cento persone e molte scuole nei weekend
primaverili buoni, vorrei che questa informazione circolasse.
Quel pericolo noi non l’avevamo previsto e non penso che sarò in
grado di fare analisi e previsioni così lungimiranti in futuro. E se
fossi in grado di farle, resterei quasi sempre a casa, preoccupato da un rischio
latente che vedrei ovunque.
Mi dispiace molto per Roberto, che è ancora alle prese con una riabilitazione complessa dopo la frattura alla gamba. La valanga l’ha preso, l’ha stritolato un po’ e poi ce l’ha restituito malconcio ma vivo. È stata benevola con lui. Avrà capito che è una persona con una grande forza e tranquillità d’animo, che a casa l’aspettavano due bambini?
È stato prima molto sfortunato, poi molto fortunato. In questo ci rappresenta
in pieno. Una valanga di quelle dimensioni poteva fare strike con un gruppo
numeroso come il nostro.
Mi tornano in mente i versi di una poesia di Montale. “E’ scorsa
un’ala rude, t’ha sfiorato le mani, ma invano: la tua carta non
è questa”.
Guido Fossati
Pubblicato su LaTraccia n. 53 - Settembre 2008 Notiziario della SEM - Società
Escursionisti Milanesi. Vedi anche:Scuola di Alpinismo e Scialpinismo “Silvio
Saglio”